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GIAN PIERO DELLA NINA

PASSAGGI DI TEMPO PORCARI NELLA PITTURA DI MAIANI

 

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Sede Comunale di Palazzo Stringari

SALA CONSILIARE

 

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COMUNE DI PORCARI A.D. MMVII

 

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Palazzo Stringari a Porcari, sede del Comune.

 

GIAN PIERO DELLA NINA

 

PASSAGGI DI TEMPO PORCARI

NELLA PITTURA

DI

MAIANI

 

Palazzo Stringari SALA CONSILIARE

 

COMUNE DI PORCARI MMVII

 

Il poggio di Porcari e la “Torretta” con in primo piano la chiesa parrocchiale di San Giusto e la ex villa Di Poggio

 

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Prefazione

 

«Una comunità fortemente legata alla sua storia esprime un modo di governare capace di coniugare locale e globale, tradizione ed innovazione, radici e futuro».

La volontà di attivare una concreta politica di valorizzazione del patrimonio edilizio pubblico e del municipio in particolare, ha espresso l’obiettivo ambizioso, dell’attuale Amministrazione Comunale, di restituire al «Palazzo» la propria centralità nella vita civile della Comunità di Porcari attraverso tutti i suoi significati sia intrinsechi che di relazione.

Cercare di identificare il «Palazzo» con l’Istituzione «Comune» ha significato operare in modo tale che le necessità, i problemi, le aspirazioni e il futuro della nostra comunità potessero trovare soluzione attraverso un rinnovato impegno istituzionale aperto al mondo esterno.

Un mondo in rapida evoluzione che, con la globalizzazione, ha scaricato sulle comunità locali criticità nuove che richiedono risposte adeguate e tempestive, pena la margina- lizzazione e l’esclusione dai processi di sviluppo.

La risposta che abbiamo cercato di dare è stata un’idea di cultura amministrativa fortemente legata alla nostra identità e capace di prefigurare il futuro coniugando tradizione ed innovazione, in una sorta di costante proiezione in avanti, pensata e realizzata mettendo insieme le migliori energie che la nostra comunità è capace di esprimere.

L’intento di abbellire la sala consiliare del municipio con un percorso pittorico dedicato ad alcuni passaggi significativi della nostra storia, mirabilmente interpretati dal maestro Paolo Maiani, sotto la preziosa consulenza storica del nostro concittadino Gian Piero Della Ni- na, non mira ad un uso celebrativo delle vicende storiche per nobilitare «il palazzo del Sindaco» o per accrescere il prestigio degli Amministratori, ma a legare indissolubilmente l’Istituzione Comune alla evoluzione socio economica del nostro territorio. La rappresentazione realizzata è costituita da eventi importanti e testimonianze di donne ed uomini che vi hanno partecipato, da scelte amministrative sofferte e da scontri, da grandi momenti di speranza e da altri eventi che hanno caratterizzato gli anni del nostro lungo cammino.

Con tale opera Porcari compie un nuovo restauro del proprio municipio, meno impegnativo di quello precedente, ma non per questo meno importante; lo fa per sottolineare ai cittadini, ai Porcaresi e in particolare, ai più giovani, il ruolo fortemente simbolico che questo edificio deve mantenere nel tempo; il «Palazzo Pubblico» inteso come centro decisionale della comunità dove le necessità di una società moderna, incalzata dai tempi dello sviluppo, dalla pressione dei bisogni e dalla richiesta di servizi efficienti, si devono coniugare con l’astrattezza e la complessità del diritto amministrativo e dove gli amministratori, con trasparenza ed imparzialità, si impegnano a ricercare quelle soluzioni atte a garantire lo sviluppo ordinato e a promuovere la crescita morale e civile della comunità che resta la funzione principale della nostra azione quotidiana.

 

Palazzo Comunale, 11 Aprile 2007

 

Il Sindaco del Comune di Porcari

LUIGI ROVAI

 

Porcari: veduta aerea

 

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Introduzione

 

Paolo Maiani, con le pitture della sala consiliare, si è proposto di riassumere la lunghissima storia di un paese, Porcari, cresciuto su una arteria importantissima, quale la Via Francigena, che univa Roma all’Inghilterra.

Partendo da una carta dell’alto medioevo, ci mostra borghi, castelli, abbazie, battaglie, e fatti che hanno caratterizzato il lungo cammino del paese, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Rappresenta personaggi, più o meno noti, ma tutti fondamentali per questa storia che può essere considerata «minore» soltanto dai più distratti e disincantati, ma non certo dai porcaresi, che li considerano come facenti parte della loro famiglia.

Fa rivivere leggende, senza esaltarle: le propone per simboli, così come sono state tramandate di generazione in generazione.

Illustra luoghi, come il lago di Sesto, sulle cui sponde sorgeva Porcari, serbatoio di vita, ma anche di morte, per le sue paludi malariche.

Racconta storie di carestie, di epidemie che hanno afflitto per secoli questa gente, che mai si è rassegnata alle calamità, bensì ha risposto con risolutezza, senza cedere al fatalismo.

Chi è dovuto andare all’estero in cerca di lavoro, quando il paese non ne offriva, si è sempre portato dietro l’ombra del suo campanile, determinato a rientrare al più presto, per consegnare il frutto del suo lavoro ai familiari più bisognosi, o per aprire una attività che poi sarebbe andata a beneficio di tutti.

Così è cresciuto Porcari. Oggi paese ricco, industriale, al quale Maiani augura che le sue industrie possano trovare un’intesa con un territorio tradizionalmente dedito all’agricoltura.

Lo augura con quell’ultima immagine dove di fronte alle fabbriche, pone un olivo, simbolo di pace e di speranza in un futuro che assicuri alla sua gente, la continuazione di una storia infinita, lunga e felice.

Con queste pregevoli pitture, Paolo Maiani dimostra, non soltanto di conoscere la storia del nostro paese come fosse da sempre vissuto fra noi, ma la interpreta e la riproduce, con quell’amore che soltanto uno di noi, e con le sue capacità, avrebbe saputo fare.

 

GIAN PIERO DELLA NINA

 

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Palazzo Stringari, oggi Palazzo Comunale di Porcari: la sala consiliare con il dipinto di Paolo Maiani

 

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Il primo documento conosciuto

 

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L’immagine centrale ci mostra la figura di un uomo che espone una carta risalente al

30 aprile 780. Si tratta del primo documento nel quale è citato Porcari. Tre fratelli pisani, di origine longobarda, Gumberto, Ildiberto e Gumbardo, fanno dono, per la salvezza delle loro anime, al monastero di San Savino di Montione presso Pisa di vari beni che essi possedevano in Porcari. Più esattamente si parla di una curtis ad Porcari, ma il documento non offre ulteriori notizie per cui non è dato di sapere 1 esatta collocazione dei beni e la loro consistenza. Si può soltanto immaginare che si trattasse di terreni e casupole raggruppate in prossimità del lago di Sesto che occupava una superficie di circa 25 kmq, nella vasta depressione che si estendeva da Porcari a Bientina e che lambiva i paesi di Tassi- gnano, Castelvecchio di Compito, Orentano, Altopascio e Badia Pozzeveri. Il lago, alimentato dai torrenti di cui la zona era ricchissima oltre che da polle sotterranee, era collegato all’Arno per mezzo di ampi canali.

Posto a sud est della città di Lucca, al sesto miglio (da qui il nome di «Lago di Sesto»), ha avuto indubbiamente una parte molto importante nella storia di Porcari. Per secoli ha costituito un serbatoio di vita, con le sue riserve di pesca e di caccia, ma è stato anche causa di morte, con le sue paludi malariche, con la sua aria mefitica spesso apportatrice di malattie epidemiche dalle quali, difficilmente, si poteva trovare scampo.

Le terre coltivabili d’intorno erano poche, per la gran parte paludose e soggette a frequenti allagamenti. In alcune occasioni, a causa delle piogge abbondanti o dell’Arno in piena che impediva il regolare scarico degli emissari, il livello delle acque si alzava di quasi due metri provocando inondazioni e conseguenti distruzioni di semine e raccolti. La zona a nord del lago era coperta da una fitta boscaglia, con prevalenza di querce e di lecci, adatta all’allevamento di animali allo stato brado, specialmente suini, che forniva carne, in gran parte destinata al consumo della vicina città di Lucca. Da qui, secondo Sii vio Pieri, l’origine del toponimo «Porcari».'

Il primo insediamento fu quasi sicuramente opera dei longobardi scesi in Italia nella secon-

 

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Monastero di S. Savino di Montione, Pisa

 

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da metà del sesto secolo, agli ordini del re Alboino il quale era solito premiare i più valorosi che si erano distinti sul campo di battaglia, lasciandoli proprietari di vaste zone che, per la loro posizione, considerava strategiche ed adatte a viverci. E quel luogo che poi fu chiamato Porcari, era sicuramente strategico in quanto posto a guardia di un tracciato di grande comunicazione che oggi conosciamo come Via Francigena. Dalla Via Francigena si staccava la strada che conduceva a Vivinaria (Montecarlo).

Da tener presente inoltre che nei pressi di Rughi, la Via Francigena incontrava la vecchia Cassia che conduceva nel pistoiese e nel fiorentino e quindi non è azzardato dire che lo sviluppo del borgo fu dovuto anche alla sua posizione geografica.

Questi gruppi familiari detti «fare» al cui vertice stavano i duchi che esercitavano l’autorità militare e civile sul territorio, occuparono la collina e lì costruirono le loro casupole, vivendo di caccia, di pesca ed allevando animali. Non I a caso troviamo il toponimo «forabosco» che è

una «zona», quasi una piccola frazione posta a metà della collina.

Non è dato di sapere se a Porcari, essi avessero trovato ed assoggettato una popolazione indigena, ma, in ogni caso è da ritenere che si trattasse di un insediamento di modeste dimensioni. È prevedibile inoltre che se popolazione ci fu, l’integrazione ai fini della convivenza dovette essere difficile, considerate le differenze religiose che separarono almeno in un primo tempo longobardi, di fede ariana, dai latini, cattolici per tradizione.

Dall’editto del 643 emanato dal re Rotari, si può capire l’organizzazione di questa piccola società divisa fra i liberi (aldiones), i semiliberi ed i servi. I primi che potevano essere mercanti (negotiatores) o proprietari di terreni propri e collettivi (arimannie), godevano di tutti i diritti civili, potevano portare le armi, partecipare alle assemblee del popolo, ed esercitavano il loro dominio sui semiliberi, che potevano essere anche proprietari di case. Sul gradino più basso di questa società organizzata verticalmente, si ponevano i servi.

 

Un borgo sulla via Francigena

 

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La pittura di sinistra (entrando) ci mostra figure dei primi abitanti del borgo e pellegrini che transitano per la Via Francigena.

Il primo agglomerato di case prende maggiore consistenza.

Quella forma embrionale di organizzazione sociale si va lentamente trasformando e verso il Mille assumerà forma di governo autonomo: il comune, un nuovo centro di potere, quasi un piccolo stato, che riuscirà ad ottenere da autorità esterne (re ed imperatori), riconoscimenti di autonomia amministrativa ed impositiva ed il diritto ad una legislazione autonoma che scaturiva da propri statuti.

Una autonomia tale che dava diritto ai potentati locali di esigere dai viandanti in transito il

pagamento di un pedaggio, con ritorni economici non indifferenti considerato che la strada che presidiavano era la più importante arteria dell’Italia centro settentrionale.

La via Francigena si sviluppava infatti su un tracciato risalente ai romani, percorso quasi certamente dall’esercito di «Giulio Cesare in occasione del suo incontro a Lucca con Crasso e Pompeo per il triumvirato nel 56 a.C.». Le fattorie di epoca romana venute alla luce recentemente nella zona, avvalorano la presenza di questa fondamentale via di comunicazione sul territorio, che partendo da Canterbury raggiungeva Roma per un percorso di 1.600 Km. Entrava in Toscana da Pontremoli per raggiungere Aulla, Luni, Camaiore e poi Lucca, Rughi,

 

Tratto della Via Francigena che attraversa Porcari e si

dirige verso Altopascio e Fucecchio

 

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Porcari, Altopascio, San Gimignano, Poggi- bonsi, Siena e San Quirico d’Orcia. Sigerico, arcivescovo di Canterbury, impiegò 79 giorni a percorrere, perlopiù a piedi, tutti 1 1.600 chilometri del tragitto.

A quei tempi mettersi in marcia per luoghi sconosciuti, affascinati dalla scoperta di nuovi mondi e dall’avventura, significava andare incontro a tutte le insidie e le incognite del cammino: briganti, malattie, intemperie e pericoli di ogni genere, costituiti anche da spiacevoli incontri con animali. Per questi motivi, le partenze quando preludevano a viaggi di lunga durata, erano sottolineate da solenni cerimonie, preghiere, testamenti. Noti era soltanto il gusto dell’avventura a spingere i pellegrini verso l’ignoto, ma principalmente, questioni di fede. Il pellegrinaggio costituisce il mezzo privilegiato per j ottenere la salvezza dell’anima, per cancellare i peccati, per ottenere la protezione dei santi e il perdono di Dio.

E proprio dalla via Francigena dovevano transitare i pellegrini, provenienti dal sud e diretti a Santiago di Compostela (passando da Luni, per immettersi poi sulla viaTolosana), e quelli pro

venienti dal nord che desideravano raggiungere Roma o proseguire poi per Otranto, porto di imbarco per la Terra Santa.

E la fede a sorreggere il pellegrino del medioevo, ricco o povero che fosse, nei suoi lunghi spostamenti; che gli fa compiere sacrifici, sopportare il dolore quasi che fosse un cammino per raggiungere Dio.

Non dimentichiamoci che la società cristiana sembra fosse terrorizzata dall’avvicinarsi dell’anno MILLE: secondo la leggenda, il mondo sarebbe finito nella notte di San Silvestro del 999. Il popolo angosciato rinunciava ai beni terreni a favore della chiesa, in remissione dei propri peccati e continuò a farlo anche dopo, costruendo chiese, cattedrali e conventi a ringraziamento dello scampato pericolo.

Questa religiosità che pervade il Medioevo ha anche un immediato riflesso sul miglioramento della produzione artistica, che si esprime soprattutto nella magnificenza delle chiese. Insie

 

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me alle idee che si diramano, si incrementano i commerci, compresi quelli delle reliquie che avventurieri, uomini in cerca di operazioni redditizie, si attivano a trasportare da un angolo d’Europa all’altro, perché ritenute necessarie alla consacrazione delle chiese, e perché conferiscono prestigio politico e spirituale a chi le possiede. Questi flussi, questi scambi di culture, di lingue, di costumi, produrranno il proliferare delle arti figurative, delle lettere, dell’architettura, della musica per culminare poi con la formazione dell’uomo del Rinascimento che ci ha lasciato una straordinaria e fantastica eredità.

 

Il castello

 

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Dalla Via Francigena o Francesca o Romea, non passavano soltanto pellegrini indifesi, ma anche eserciti e soldatesche che compivano ruberie, soprusi e devastazioni di ogni sorta. Così fu necessario, per sopravvivere, provvedere ad organizzare efficaci strutture difensive. Si assiste quindi, non solo a Porcari, ma anche altrove, a quel processo di fortificazione conosciuto come

«incastellamento». A destra dell’immagine centrale entrando nella sala consiliare, si rammenta il «castrum», cioè il castello che si ergeva sul borgo di Porcari. Si parla di questo castello in documenti intorno al 1000: Beatrice di Lorena,

moglie di Bonifazio e madre di quella che passerà alla storia come la contessa Matilde di Canossa, acquista una quota del castello e della «curtis» di Porcari. Il fatto è ricordato in un documento datato 14 giugno 1044, due anni prima della discesa di Enrico III in Italia, il quale, transitando per la via Francigena raggiunse Roma dove il papa Clemente II lo incoronò imperatore il giorno di Natale del 1046. Evidentemente, Beatrice, tenace avversaria di Enrico III, con questo acquisto intendeva rafforzare le sue posizioni militari, perseguendo la politica antimperialista del marito, margravio della Tuscia.

 

Archivio di Stato di Lucca, Acque e Strade n. 731,

sec. XVII-XVIII, particolare

 

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Dal libro2 di Seghieri, possiamo ricavare elementi utili per avere una visione sia pure approssimativa del borgo e del castello di Porcari, costruito «a petre et a calcina et a rena», che sorgeva sul colle detto di San Giusto:

«La cur- tis, ora recinta da un alto muro, era divenuta idonea per la difesa e la salvaguardia di servi e massari che vi trovavano rifugio in caso di pericolo. Gradualmente lo scudo di sicurezza della cerchia muraria vedrà rafforzata la sua struttura, non più protettiva e temporanea, assumendo a poco a poco la finzione di stabile centro abitativo autonomo, tenuto conto delle mutate condizioni politiche, che individuavano nel castello un punto di fòrza per l’esercizio del potere da parte della consorteria che lo presidiava».

Il castello che non doveva essere di grandi dimensioni, secondo l’uso di quel tempo, e circondato da ampi fossati per rendere più difficoltoso l’assalto nemico, sorgeva presso la Chiesa di San Giusto la quale, con ogni probabilità, restava fuori della cerchia delle mura. Nelle mura del castello trovavano riparo gli abitanti del bor

go in caso di attacco. Nelle parti basse del poggio si collocavano gli edifici rustici destinati ai servi, con la chiesetta dedicata a Sant’Andrea, protettore dei pescatori.

«Altre due chiese — continua il Seghieri3 sono ricordate in una delle carte rogate il 28 aprile 1039: la chiesa intitolata a S. Angelo (san Michele, del quale erano devoti i Longobardi) e quella di S. Maria, le quali, a stare alla lettera del documento, si sarebbero trovate nella parte più bassa del borgo (de ecclesis illis que esse videtur infa su- prascripto burgo que dicitur Porcari). Queste cappelle, sorte per la iniziativa di qualche devoto, le ritroveremo nel XIII secolo unite fa di loro, forse per la difficoltà di mantenerle tutte aperte al culto, o per l’impossibilità di riedificarle se cadute in rovina; le chiese di S. Giusto e di Sant’Andrea sono affidate fin dai primi del ’200 ad un unico rettore, la cui nomina era devoluta, per diritto di giuspatronato, alla Consorteria dei nobili della casata dei Porcaresi; quella di Santa Maria, cui era stato unito in epoca imprecisata il titolo di San Giovanni, era manuale, nel periodo predetto, della abbazia e monastero di Pozzeveri...».

 

Il vescovo Frediano (San Frediano)

 

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La prima figura sul lato sinistro rappresenta Frediano, vescovo di Lucca, che poi diverrà santo. Era irlandese, appartenente ad una ricca famiglia, ma ben presto rinunciò alle comodità, agli ozi che la vita gli poteva offrire, dismise gli abiti eleganti per indossare il saio. Secondo la tra

dizione, nella prima metà del VI secolo, scese in Italia come pellegrino per visitare Roma. Di ritorno, si fermò a Lucca e come eremita si rifugiò sui monti. I lucchesi, conosciuta la sua santità lo acclamarono vescovo. A Lucca fondò la chiesa di San Vincenzo, che fu anche catte-

 

bacino del lago di Sesto in un disegno del sec. XVI tratto da M. SEGHIERI, Pozzeveri, una badia, Poscia 1978

 

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drale cittadina, prima della costruzione nel secolo XI dell’attuale San Martino. Alla sua morte, la chiesa da lui fondata, fu intitolata a suo nome.

Fra i vari miracoli che gli si attribuiscono, cè quello di aver salvato Lucca dalle intemperanze del Serchio che scendendo dai monti della Garfagnana, specialmente con le piogge dei mesi invernali si gonfiava oltre misura e straripava in pianura inondando la città.

La leggenda racconta che Frediano tracciò con un rastrello, all’altezza di San Pietro a Vico, una nuova direzione per il fiume ed in quella, prodigiosamente si incanalarono le acque, riversandosi su Marlia, Lunata, Antraccoli, Capan- nori, Tassignano, Porcari, fino a raggiungere l’Arno.

Poiché le prime notizie che si hanno della presenza del lago di Sesto risalgono ad epoca non anteriore al secolo Vili, alcuni studiosi, riferisce Emanuele Repetti nel suo Dizionario Geo

grafico Fisico Storico della Toscana, ne dedussero «che nei tempi remoti questo lago non esistesse (...) pure, continua lo storico la sua topografica giacitura, in un suolo assai depresso e mantenuto lacustre non solamente da acque correnti dei fossi che vi fluiscono, ma dalle polle naturali che scaturiscono dal fondo del suo bacino, ci obbligano quasi di per loro stesse a dover fare risalire la sua origine ad epoca molto anteriore al secolo Vili, quando cioè il suo fondo doveva essere molto più depresso di quello che attualmente apparisce».

Quindi l’operazione compiuta da Frediano potrebbe aver determinato la formazione del lago di Sesto o, se già esistente all’epoca, lo avrebbe alimentato espandendone notevolmente la circonferenza.

Il lago così formato od ingigantito andava ad occupare una vasta estensione di terreni ricadenti per metà in territorio lucchese e per l’altra metà su territorio fiorentino. L’operazione

 

Lucca, chiesa di S. Frediano, il fonte battesimale del XII secolo Chiesa di S. Frediano, part. della facciata

 

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portò indubbiamente un grande sollievo alla città, e fu per questo chiamata «il miracolo di S. Frediano», essendone stato Frediano, 1 autore. Certo non fu accolta con pari entusiasmo nella piana orientale, dove le inondazioni, già frequenti, si moltiplicarono, provocando distruzioni di raccolti e conseguenti carestie. Sappiamo che il vescovo Frediano, recatosi a Lunata in preghiera, fu malamente accolto dalla popolazione, che evidentemente non aveva gradito quel tipo di miracolo, ed il santo dovette tornare al più presto a Lucca, ad evitare guai peggiori.

Gli interventi per «rimediare» al miracolo furono molti di iniziativa sia del governo toscano, con Lorenzo de’ Medici (che era personalmente interessato ad una bonifica essendo proprietario di considerevoli beni in quella zona), sia dalla repubblica di Lucca. Interessato all’impresa fu anche il grande Leonardo Da Vinci, del quale restano importanti rilievi cartografici.

 

Il Granduca Leopoldo di Toscana con moglie e figlio Iconografia di S. Frediano con il rastrello Lucca, campanile della basilica di S. Frediano

 

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Furono poi coinvolti matematici ed ingegneri idraulici, come l’Abate Leonardo Ximenes, al quale si deve la costruzione a partire dal 1762, del Canale Imperiale, detto anche del Cilec- chio, un canale artificiale navigabile che univa le acque del lago di Sesto all’Arno, ma si dovette arrivare alla metà del secolo XIX per realizzare quel progetto che avrebbe consentito il prosciugamento del lago e la totale bonifica del territorio.

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Fu all’indomani del passaggio della repubblica di Lucca alla Toscana. Con l’aggregazione, venivano superati tutti i motivi di contrasto tra

Repubblica di Lucca e Granducato della Toscana e così Leopoldo II, con un decreto del 1852, ordinava l’essiccazione del lago. Il 16 aprile 1854 si gettava la prima pietra del fondamento della botte, mediante la quale, le acque del lago sarebbero passate sotto il letto deU’Arno, per attraversare tutta la pianura meridionale pisana e finire in mare nei pressi di Calambrone.

Prima che l’intera zona venisse bonificata, il lago di Sesto, il più vasto della Toscana, navigabile e collegato all’Arno attraverso un sistema di canalizzazione, costituiva una importante infrastruttura per un rapido ed economico scambio di merci fra Lucca,

Firenze, Pisa e Livorno. In

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particolari occasioni, era necessario prendere la via del lago per trasferirsi da una città all’altra: non era quindi, solo un percorso alternativo, ma a volte obbligatorio o preferibile.

Si dice che Frediano, vescovo di Lucca, sia morto il 18 marzo del 588. Fu canonizzato alcuni anni dopo. La fama di santità e il miracolo del Serchio gli valsero da subito una venerazione molto intensa. Nelle iconografie viene rappresentato in abiti vescovili, spesso con l’attributo del rastrello, così come compare nella pittura di Maiani, in ricordo del miracolo del Serchio. Frediano fu sepolto nella sua chiesa: il suo corpo è adesso conservato in una cripta costruita dal vescovo Giovanni nel secolo Vili.

 

Lavori agricoli

 

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Nella prima immagine sul lato destro, Maiani raffigura persone che attendono al lavoro dei campi nei secoli intorno al Mille. L’immagine ci infonde un senso di tranquillità e di pace, più sperata che realmente vissuta, perché gli abitanti del borgo dovevano vedersela non solo con le soldatesche che, di quando in quando, calavano dall’Europa del nord, ma anche con le guerre che si scatenavano tra le città vicine intenzionate ad ampliare i loro confini. Possiamo poi immaginare che una guerra di tipo diverso, ma non per questo meno dura e terribile, fosse quella dichiarata al lago di Sesto, al quale si voleva sottrarre le terre inondate, che se bonificate avrebbero potuto offrire abbondanti raccolti.

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Con ture, parate, opere di arginamento provvisorie, aperture ingegnose di canali, si riusciva a far emergere fette di terreno da coltivare.

A nord del lago, invece, si abbattevano le fitte boscaglie, si ripulivano i terreni da ceppe e radici, si dissodavano, per restituir loro fertilità. «Su queste terre nuove, come sulle altre già da tempo coltivate, predominava la cerealicoltura: oltre al grano venivano destinati spazi al miglio e ad altre graminacee e alle leguminose, con predominanza delle fave utilizzate anche per la panificazione. I campi, sia di piano che di poggio, erano delimitati da fosse di scolo delle acque e circondati ai margini da filari di viti a festoni sorrette dai fusti di pioppo piantati ad intervalli regolari. In

 

La mietitura, olio di Eugenio Carraresi, che negli anni \50 amò dipingere le luci ed i colori della campagna a Porcari

 

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ogni podere non mancava il fico, documentatissimo ovunque in Lucchesia nel medioevo; meno documentati altri alberi da frutto, come il pero, il ciliegio, il pesco. L’ulivo non aveva ancora raggiunto largo sviluppo nelle zone collinari di Porcari; la pianta era peraltro anche qui protetta e l'abbattimento poteva costituire motivo di rescis- I sione dei contratti di livello e di affitto.

L’allevamento del bestiame grosso era limitato a I uno o

due capi per nucleo colonico; il più delle volte, però, il capo, bovino od equino, non era di proprietà del coltivatore del fondo, ma di terzi, in prevalenza mercanti o bottegai della città, che acquistavano le bestie e le affidavano ai contadini «ad collaria»■, un contratto di soccida assai diffù- j so anche nel porcarese nel XIII e XTV secolo. Rara la documentazione di greggi presenti nel territorio, che probabilmente scendevano al

cedeva alla macellazione dei capi, la cui carne, salata o affogata nel lardo, consentiva di realizzare qualche modesto guadagno e accantonare un po' di carne per far fronte alle necessità della famiglia del contadino nei lunghi mesi invernali.

Anche la caccia era qui praticata, se troviamo nel XTV secolo ricordata la vendita di carne di capriolo, tortore, tordi e altri «ugelletti».

Quanto alla pesca, le terre basse di Porcari, in gran parte impaludate e solcate da fòsse, confinavano con il lago di Sesto ed erano frequentate da pescatori, anche di frodo; le fosse ed il lago erano in grado di fornire abbondanza di carne magra, ma si frapponeva il divieto dei grandi proprietari — i Nobili Porcaresi, l’Ospedale e Magione dell’Alto- pascio e l’Abbazia di Pozzeveri — i

quali consideravano il padule e il lago propria bandita

piano agli inizi dell'autunno e venivano recettateper la Il

stabbiatura dopo la vendemmiaCon il degrado dei boschi e

con la messa a coltura di vaste superfici ricuperate, l'allevamento brado delle bestie suine era andato via via diminuendo a beneficio di I quello a stabbialo. Fra dicembre e gennaio si prò-

padule costituiva inoltre un’area di sfruttamento per il taglio annuale dei falaschi e per la raccolta dei marciumi dei pollini utilizzati per fertilizzanti nelle terre magre.

Durante il XIII secolo l’agricoltura, avvantaggiata dalla introduzione di più idonei sistemi di lavorazione delle terre, era pur sempre soggetta a fat-

 

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Scene di vita a Porcari nei primi dece) i del Novecento

 

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tori di varia natura, che ne condizionavano i ri- | saltati. Era sufficiente una prolungata siccità estiva, oppure una eccessiva piovosità primaverile, una grandinata o una gelata a compromettere i raccolti. Gli uomini che lavoravano la terra erano in continua apprensione per le sorti dalle quali dipendevano i risultati delle loro fatiche; e queste loro preoccupazioni talvolta trasparivano nelle scritture di ricognizione di livello con l'introduzione di pattuizioni che prevedevano, in casi di calamità naturali, la riduzione del canone enfiteutico».' Faremmo un torto a questi abitatori del borgo se parlassimo soltanto di guerre, calamità e la

voro. Vivevano anche momenti di distrazione garantite da essere residenti su una strada cosi importante come la Via Francigena. Da 11 dovevano necessariamente passare i pellegrini che si guadagnavano da vivere allestendo brevi spettacoli, cantori che proponevano le gesta di Orlando come modello di cavaliere caduto in battaglia contro i saraceni.

La gente si accalcava intorno ai cantastorie per vivere le imprese dei paladini di Terra Santa.

 

L’Abbazia di Pozzeveri

 

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Le persone incappucciate che troviamo sul lato sinistro, rappresentano figure di monaci appartenenti all’Abbazia di Pozzeveri, eretta grazie ad una generosa donazione dei discendenti della nobile famiglia dei Porcaresi, ai preti Teuperto, Omicio e Bonizzo, con l’impegno da parte loro di costituirsi in comunità presso la chiesa di San Pietro di Pozzeveri.

La donazione avvenuta, circa a metà dell’anno Mille, consisteva in terreni collocati per la massima parte a mezzogiorno e a settentrione della Via Francigena, fra Porcari ed Altopascio ed in fabbricati: oltre alla chiesa di San Pietro ve-

nivano donate anche alcune case poste nei suoi pressi.

I donatori si riservavano il privilegio di essere inumati nella chiesa oggetto del lascito ed il diritto di giuspatronato sul complesso monastico come già era avvenuto per le chiese di Santa Maria e San Giovanni nel borgo di Porcari. L’Abbazia fu affidata, agli inizi del secolo XII, ai Camaldolesi, una congregazione monastica cattolica fondata tra il 1024 e il 1025 da san Romualdo, monaco benedettino, i quali vi istituirono anche un ospedale per la cura degli ammalati ed in particolare per l’assistenza agli in-

 

La chiesa vecchia di Badia Pozzeveri ultimo reperto dell'antica abazia camaldolese

 

 

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tetti e contagiosi. Questi monaci seppero, evi-

dcntemente, acquistarsi molti meriti se, sol- tanto un secolo dopo, troviamo il loro iniziale patrimonio, già cospicuo, notevolmente accre-

sciuto, frutto di successivi lasciti di terreni e fabbricati sparsi in tutto il territorio lucchese. La Congregazione «era strutturata in due distinti settori: quello degli eremiti, o reclusi, e quello dei cenobiti. I primi, vestiti di saio di ruvida lana, erano impegnati prevalentemente nella preghiera e nella meditazione; i secondi si distinguevano dal- la tunica che indossavano, di lana rasa, senza mantello, e dedicavano una parte della giornata alla cura d’anime, alle opere di carità, alla amministrazione del patrimonio del monastero e ai lavori manuali.... Altra attività di rilievo intrapresa dai monaci fin dai primi del XII secolo fu la molitoria, condotta mediante la gestione diretta di

, alcuni molini impiantati nella zona di Veneri, lungo il corso della Pescia di Collodi, all’incontro i di un importante nodo stradale sul quale si incrociavano la via Cassia, proveniente da Firenze e diretta a Lucca, e la via Vinarese che, attraverso le

colline di Vivinaria, univa il pesciatino con la via Francigena-Romea. Il grado di massima attività molitoria venne raggiunto nella seconda metà del XIII secolo; gli impianti, potendo fare affidamen-

to sulla costante derivazione e canalizzazione dell’acqua della Pescia minore, con adduzione per gore e acquedotti correnti su terreni di proprietà, erano al riparo da qualsiasi servitù e perennemente alimentati dalla forza motrice. La gestione eracondotta in proprio dalla abbazia, che vi provvedeva con propri conversi.. ,».5

Inoltre i monaci davano in affitto porzioni di lago per esercitarvi la pesca il cui prodotto eradestinato al rifornimento del mercato cittadinoe delle mense dei monasteri per i giorni di astinenza. Il monastero ebbe però una vita relativamente breve.

Piano piano gli interessi economici prevalserosu quelli spirituali, provocando divisioni inter-ne che non poterono più essere ricomposte.

Cessò anche l’assistenza ai malati contagiosi.

Le divisioni interne furono causa anche di unaprofonda crisi economica e finanziaria, tanto dacostringere i monaci a ricorrere a prestiti di denaro.Ad aggravare la situazione contribuirono poi le guerre che dal 1314 all’avvento della signoria Guinigi, tormentarono tutto il territorio lucchese.

«In tali situazioni di crisi e di incertezze, aggravate periodicamente dall’insorgere di funeste epidemie, l’abbazia di Pozzeveri sopportò condizioni di degrado e di decadenza che costrinsero i monaci ad abbandonare la vecchia loro residenza

e trasferirsi nella casa di Lucca in Borghicciolo, fuori porta San Gervasio; la comunità andò via

via riducendosi e toccò il fondo fra gli ultimi anni del 1300 ed i primi del 1400, durante i quali il monastero registrò scarse presenze di religiosi, fino a ridursi al solo abbate che beneficiava delle rendite del patrimonio e talvolta era motivo di scandalo... La soppressione fu sancita da papa Gregorio XII con bolla del 3 luglio 1408, con devoluzione di diritti, privilegi, benefici e patrimonio in favore del Capitolo di San Martino... ».6

Di questo monastero raffigurato fantastica- mente da Maiani, alle spalle dei monaci ca- maldolesi, oggi, non esistono più tracce.

 

Le guerre del XIV secolo

 

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Ancora sul lato sinistro, troviamo raffigurate scene di guerra che caratterizzarono il secolo XIV, causate dalle grandi rivalità insorte fra Pisa, Lucca e Firenze, le quali intendevano assicurarsi il predominio in Toscana.

A scatenare l’inferno nella nostra regione, fu Uguccione della Faggiuola, potestà e capitano di guerra in Pisa dal 1313. Alla testa di un migliaio di mercenari tedeschi e fiamminghi, intende conquistare Lucca e costringerla alla resa con incursioni continue ed asfissianti. Nel novembre raddoppia le scorrerie e compiendo de

vastazioni e saccheggi, penetra nella valle di Compito, tocca Vorno e Massa, distrugge 80 molini ed il campanile di Guamo, supera le linee difensive organizzate dai guelfi toscani e fa strage di uomini a Pontemaggiore, a Pontetet- to e a San Piero a Grado.

Si ritira a Pisa, quando già stava sotto le mura, per l’arrivo dei rinforzi da Siena in soccorso della città di Lucca.

Muove l’anno successivo contro Siena e ancora contro Lucca. E in maremma: ovunque porta distruzione. Conquista castelli e fortificazio-

 

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ni. Si inimica mezzo mondo, tanto che i pisani, allarmati, pensano di destituirlo, ma senza successo.

Nel giugno del 1314 assale ancora Lucca con l'aiuto degli Antelminelli e di altre famiglie ghibelline. La città è sottoposta al sacco per otto giorni, sono bruciate 1400 abitazioni: viene anche rubato nella chiesa di San Frediano il tesoro, valutato un milione di fiorini, collocatovi temporaneamente dal cardinale Gentile da Mon- tefiore per essere trasportato in Francia.

Alla fine delle operazioni, Uguccione riforma le istituzioni cittadine, nomina signore della città, con i più ampi poteri, il figlio Francesco e fa ritorno a Fisa. Assicuratosi cosi il controllo di Lucca e Pisa, marcia contro i pistoiesi e contro

i volterrani; assale Buggiano e Serravalle Pistoiese.

Nel marzo 1315 assedia Montecatini, alla

cui difesa si sono posti 2000 guelfi e deve rinunciare, ma ritenta l’impresa in agosto ed il 29, sotto le mura di questa città, vi fu lo scontro decisivo. L’esercito guelfo (Fiorentini e alleati) fu preso di sorpresa da quello ghibellino e Uguccione, nonostante se la dovesse vedere con forze ben superiori alle sue, vince ancora una volta.

Nella battaglia, solo di parte fiorentina, muoiono 2000 uomini ed altri 1500 sono fatti prigionieri. Con la vittoria, si arrendono ad Uguccione: Montecatini, Monsummano e Motrone; ottiene Vinci; blocca Prato e Serravalle Pistoie-

 

Scene tratte dalle Cronache del Sercambi, manoscritto

deU'Archivio di Stato di Lucca

 

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se ed ha, da ultimo, anche Buggiano. Con la vittoria, Uguccione della Faggiuola nomina podestà di Lucca il figlio Neri e fa ritorno a Pisa, dove è accolto in trionfo. Questa battaglia segna la disfatta delle forze guelfe in Italia. Invincibile sul campo di battaglia, Uguccione non fu altrettanto fortunato sul terreno politico. Nel 1316, Pisa e Lucca si ribellano alla sua signoria. Gli avversari corrompono i suoi mercenari, saccheggiano il suo palazzo, uccidono i suoi familiari e lui è costretto a fuggire e ad abbandonare la Toscana.

A Lucca prese il suo posto Castruccio Castracani della famiglia degli Antelminelli.

Queste battaglie, queste scorrerie di truppe, di bande armate, interessarono anche Porcari, con

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il suo castello che rappresentava l’ultimo baluardo difensivo di Lucca.

Certamente Uguccione della Faggiuola impegnato a combattere non voleva lasciarsi alle spalle milizie armate che lo potessero accerchiare ostacolando in qualche modo i suoi piani espansionistici ed è prevedibile che abbia operato in modo da mettere in condizioni la fortezza di Porcari ed i suoi abitanti di non nuocere. L’unica strada da percorrere per raggiungere Montecatini era la Via Cassia che passava da Rughi, in prossimità del castello e conoscendo i metodi usati da Uguccione possiamo senz’altro concludere che le sue truppe lasciarono un segno cruento quanto indelebile sia sulle cose che sulle persone.

 

Castruccio Castracani e la battaglia di Altopascio

 

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Passando sul lato destro troviamo un'altra scena di battaglia che ci offre l’opportunità di parlare di un altro signore della guerra che ha avuto a che fare con Porcari ed il suo castello. Ci riferiamo a Castruccio Castracani che ebbe una parte importantissima nella conquista di Montecatini, al comando di una parte dell’esercito di Uguccionc della Faggiuola. Castruccio, ghibellino, fu esiliato da Lucca guelfa, nel 1300 per motivi politici. Vìsse in Inghilterra dove riuscì a conquistarsi le simpatie del Re Edoardo II, per la sua abilità nell’uso delle armi. Proprio a causa dell’uso troppo di

sinvolto di queste fu costretto a fuggire dall’Inghilterra e rifugiarsi in Francia per aver ucciso un dignitario di corte. Qui si mise al servizio del Re Filippo il Bello distinguendosi come comandante della cavalleria nella guerra di Fiandra.

Nel 1304, lo ritroviamo in Italia, aggregato alle truppe ghibelline di Uguccione della Faggiuola, per combattere la parte guelfa lucchese. Dopo l’abbandono forzato di Lucca e Pisa da parte di Uguccione, Castruccio prese il suo posto e continuò nella politica del suo predecessore, intenzionato ad allargare i confini del suo territorio.

 

Castruccio a cavallo un documento conservato presso

l'Archivio di Stato di Lucca

 

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A differenza di Uguccione, fu però più avveduto politicamente, tanto che dalla carica di Capitano Generale passò a quella di Console a vita e quindi di Signore di Lucca e Pisa. I suoi clamorosi successi gli consentirono di diventare arbitro dell’intera politica del medioevo toscano ed i ghibellini, con lui, presero sempre più forza, affermandosi sia in Toscana che in Liguria.

«Nel disegno che i programmi politici del Castracani avevano sin dagli inizi delineato. Porcari rivestiva, con gli altri castelli delle colline che s’interponevano fra la piana di Lucca e la Valdinievole, la chiave di volta di tutto il sistema difensivo di

Lucca ed ultimo baluardo da opporre ai fiorentini in una eventuale avanzata verso la città. Era quindi naturale che Castruccio si preoccupasse di rendere efficienti le basi fortificate costituite dai castelli di Vivinaria, del Cerruglio, di Montechiari, di San Martino in Colle e, in ultimo, di Porcari. Va detto che la strategia di Castruccio, tesa all’allargamento dei confini dello Stato, mirava a tener lontano il più possibile la guerra dal territorio lucchese. La politica antiguelfa ed espansionistica del Castracani era diretta in particolare contro Firenze, la quale aveva conquistato nella regione, da tempo, una posizione di primato che neppure la

 

cocente sconfitta inflittale a Montecatini dai Ghibellini nel 1315, aveva scalfito. Firenze e la parte Guelfa contrastarono con alterne fortune le iniziative del nemico con una serie di manovre e di fatti d arme puntualmente annotati nelle cronache del tempo»?

Nel 1325. Castruccio riesce ad entrare in Pistoia ed i fiorentini, temendo il peggio, organizzarono in controffensiva, un esercito composto da ventimila fanti e tremila cavalieri, agli ordini del capitano Ramondo di Cardona. Iniziò la marcia verso Lucca, con l’obiettivo di impadronirsi dei castelli e roccheforti lucchesi sul tracciato della Via Francigena. Caddero così in mano fiorentina i castelli di Cappiano e di Montefalcone. La marcia proseguì verso Alto- pascio che, assediato dall’esercito fiorentino, dopo una resistenza di alcuni giorni dovette capitolare a causa di una epidemia scoppiata fra i difensori. Era il 25 di agosto e Ramondo di Cardona, soddisfatto per questi successi, fece accampare i propri uomini nei pressi di Badia Pozzeveri in attesa di dare il decisivo assalto al castello di Porcari. Castruccio temporeggiava, ben sapendo che il luogo scelto per l’accampamento, basso, paludoso, soggetto a frequenti inondazioni, presentava insidie, che alla lunga avrebbero potuto essere decisive ai fini dell’esito della battaglia.

Da un anonimo cronista, che con ogni probabilità, assistè ai fatti apprendiamo che

«Stando messer Ramondo con la sua gente alla ditta Badia, spesse volte cavalcavano per lo piano di Lucca ardendo case e ville efacendo grandi prede d’uomini e di bestiame; Castruccio avea molto afforzato il poggio di Porcari e facialo ben guardare perché messer Ramondo noi potesse avere, perciò che se elli l'avesse avuto, Castruccio e la sua gente non serrbbe mai potuto ricogliersi alla città di Lucca. E spesso lo ficea combattere: elio era sì forte (il poggio di Porcariì che per battaglia noi poteano avere»?

Ramondo compì frequenti scorrerie sotto il castello dì Pbrcari ed ogni sorta di devastazione nella campagna circostante, tanto da costringere gli abitanti *...a mettere al sicuro ipochi beni. A Portati vennero calate dal campanile te due campane dalla chiesa di San Giovanni nel borgo

e portate in salvo a Lucca nel monastero di San Frediano»? Nell’immagine di Maiani, vediamo la rappresentazione di questo fatto.

Castruccio, sembrava non accettare queste provocazioni e stava al gioco in attesa di rinforzi preannunciati da Galeazzo Visconti, signore di Milano, da Cangrande della Scala, signore di Verona e da Passerino Bonaccolsi, signore di Mantova.

Nel frattempo — racconta il Villani — per rendere più diffìcile alla cavalleria di Ramondo di prendere la via per Lucca, «...fece fare uno fosso dal poggio al padule, e steccare e guardare con molta sollecitudine di dì e di notte».10 Questo particolare ci dà una indicazione di quanto fosse vicino il «poggio» dall’inizio delle acque del padule. Si doveva trattare di poche decine di metri, se fu possibile realizzare in così poco tempo, il fossato ed uno steccato di protezione. Appena giunta la notizia dell’arrivo dei rinforzi, Ramondo comprese il suo errore, ma era troppo tardi. Cercò di uscire con il suo esercito dalle paludi di Badia Pozzeveri ma fu respinto da Castruccio e costretto a riguadagnare le sue posizioni.

Il 23 settembre fu il giorno decisivo per lo scontro che rappresentò la totale disfatta per l’esercito fiorentino. Quella battaglia, passata alla storia come «battaglia di Altopascio», in effetti, avvenne sul territorio di Porcari e con questo nome avrebbe dovuto essere ricordata. Castruccio dopo questa vittoria fu accolto a Lucca con grandissimi onori degni dei più alti condottieri. Avrebbe potuto aspirare a conquiste e traguardi ancora più significativi, ma morì appena tre anni dopo, a Lucca, il 3 settembre 1328. Così scompariva dal mondo una delle figure più importanti della storia italiana della prima metà del XIV secolo, personaggio che, si dice, abbia ispirato al Machiavelli la sua opera «Il Principe».

« Visse quarantaquattro anni, e fu in ogni fortuna principe E perché vivendo ei non fu infe

riore né a Filippo di Macedonia padre di Alessandro, né a Scipione di Roma, ei morì nella età dell’uno e dell’altro; e sanza dubbio arebbe superato l'uno e l’altro se, in cambio di Lucca, egli avessi avuto per sua patria Macedonia o Roma»?1

 

Il vescovo Paganello da Porcari e Santa Zita. Il papa Eugenio II: una ipotesi

 

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Avanzando su questo lato, troviamo raffigurati il vescovo Paganello e Santa Zita. I Paganelli costituivano un importante ramo della famiglia dei Porcaresi, la cui ultima discendente fu Giovanna che andò in sposa nel XV secolo, a Filippo di Giovanni di Ciomeo Di Poggio.

Troviamo un Paganello da Porcari «....per due anni potestà in Firenze (anni 1200 e 1201) e sei anni dopo in Pistoja, siccome nel 1213 fu potestà di Siena un Guelfo di Ermanno di Paganello, e nel 1239 in Volterra un Orlandino di Paganello pure da Porcari, quello stesso Orlandino che nel 1234 in Massa del Marchese trovammo vicario per il Pont. Gregorio IX»?2

A Guelfo di Ermano di Paganello da Porcari si deve la costruzione del castello di Monterig- gioni, tra il 1213 ed il 1219, ricordato in una lapide in latino, presso il castello, nella quale si legge: «Nell’anno del Signore 1213, indizione seconda, nel mese di Marzo al tempo del Signore Guelfo di Ermanno di Paganello da Porcari Podestà di Siena, del Signore Arlotto da Pisa, giudice oculato, e di Ildebrando di Usimbardo camerario di Siena, questo castello di Monteriggioni fu iniziato nel nome di Dio e quindi racchiuso completamente da mura con spese e lavori sostenuti in proprio dal popolo di Siena».

A Lucca nel 1187 troviamo potestà Paganello da Porcari e, nel 1192, Guido Paganelli. Altro

 

Santa Zita rappresentata durante il miracolo del mantello Beata

 

Elena Guerra ai piedi di papa Leone XIII

 

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Pagahcllo da Porcari (dilecto filio), viene lodato, in una bolla risalente al 1138, dal papa Innocenzo Il per aver fatto donazione ai Cavalieri del l'empio (Templari), d una terra nel luogo detto «Ruca».

Sono sufficienti queste indicazioni per capire quanto fosse importante questo ramo della famiglia dei Porcaresi che ha dato anche personaggi di primissimo piano nel mondo religioso. Ricordiamo quel Paganello, figlio di Gherardo Cavicchia

«della potente famiglia de' Porcaresi», già canonico della cattedrale, che fu eletto Vescovo di Lucca I’ 11 Agosto 1274. Morì il 9 febbraio 1300 lasciando un indelebile ricordo di sé c dei suoi atti pervenuti fino a noi.

Uno dei suoi primi atti da vescovo, fu quello di riconoscere Zita come una santa, per averla personalmente conosciuta. Pochi anni dopo la morte di lei, ne consentirà il culto.

Zita era nata nel 1218 da una modestissima famiglia contadina di Monsagrati, e, quasi bambina, fu mandata a servizio, come domestica, di una nobile famiglia lucchese, quella dei Fa- tinelli, presso la quale restò fino alla morte.

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Povera era e povera rimase, perché quel poco che guadagnava, lo donava ai mendicanti ed a chi non era in condizione di poter lavorare.

Si racconta che un giorno il suo padrone la sorprese con il grembiule rigonfio e, pensando che in qualche modo sottraesse del cibo alla mensa della famiglia, le chiese cosa portasse con sé. Zita rispose: «fiori e fronde», e miracolosamente, disciolto il grembiule, ne sarebbero caduti fiori e fronde. È per questo che a Lucca, la si ricorda come la santa di piante e di fiori e nel mese di aprile si celebra la sua festa.

Ancora si racconta che Zita, facendo ritorno da un pellegrinaggio, trovò chiusa la porta della città. Le si avvicinò una signora straniera che la invitò a proseguire; insieme percorsero un breve cammino verso quella porta chiusa da molto tempo che miracolosamente si aprì. Insieme si avviarono verso il palazzo dei Farinelli, dove Zita riconobbe nella signora straniera, la Madonna che nello stesso momento, scomparve. La sua santità varcò ben presto i confini di Lucca. Essa è ricordata perfino da Dante Alighieri, il qua-

 

StWM Gemma Cullami

 

 

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le, riferendosi ad un magistrato lucchese, lo indica come «un de li anzian di Santa Zita».13 Morì il 27 aprile 1278 ed i Fatinelli la vollero seppellita nella loro cappella di famiglia nella basilica di San Frediano. Nonostante che il vescovo Paganello de’ Porcaresi ne avesse consentito il culto locale quasi subito dopo la sua morte, la canonizzazione avvenne a distanza di molti anni, nel 1696, ad opera del papa Innocenzo XII. Già Dante, come abbiamo visto, la chiamava «santa» tre secoli prima e questo la dice lunga sui fatti che si attribuivano a questa piccola contadina.

Fu poi proclamata «patrona dei domestici» da papa Pio XII. Nelle iconografie con dei fiori in mano, o con un giglio, simbolo di purezza o con chiavi in riferimento alla casa da lei servita con zelo e con onestà per tutta la vita. Tornando ai Paganelli da Porcari, non possiamo tralasciare di fare riferimento ad un altro grande personaggio, Bernardo Paganelli, divenuto papa con il nome di Eugenio III. Poiché la storiografia lo fa nascere a Pisa, ad uno storico14 è apparso improbabile che appartenesse

alla famiglia lucchese, considerato il sentimento di inimicizia che aveva sempre caratterizzato il rapporto tra Lucca e Pisa e anche perché pare che Eugenio III avesse studiato fuori del territorio lucchese.

Questi, però, non sono validi motivi per escludere l’appartenenza di Eugenio III alla casata porcarese.

Di questo personaggio non è nota la data di nascita, ma sappiamo che ha esercitato il suo pontificato dal 15 febbraio 1145 fino alla sua morte avvenuta a Tivoli l’otto luglio 1153.

Sta di fatto che i Paganelli erano porcaresi. In un documento del 1011, si afferma che Beral- dus, qui Paganellus dicebatur è il più antico dei porcaresi. In altro: De isto Paganellus sunt Por- carienses.

  1. Paganelli «de dominis Porcari» come è scritto nella carta 1431 (an. 1181) erano molto devoti alla Chiesa. In un documento risalente al 1135 è detto che Paganello di Rolando c sua moglie Agnese concedono le decime di tutti i loro raccolti alla Chiesa di S. Pietro in Poteoli (oggi Pozzeveri) ed il Papa Innocenzo II, a motivo della loro devozione (e di questa cospicua donazione), tre anni più tardi, riserverà ai Paganelli il privilegio di sepoltura nell’abbazia.

    Lo stesso privilegio fu poi confermato da Papa Eugenio III.

  2. nome Bernardo o Beraldo ricorre poi con frequenza in questa famiglia, in onore del capostipite.

Sappiamo poi che i Paganelli possedevano una quota del castello di Porcari e che altra quota apparteneva a certo Guglielmo Aiucci, (forse di Pisa, come afferma il Seghieri), per acquisto fattone dalla contessa Beatrice di Canossa. Qualche anno più tardi la morte di Eugenio III, troviamo i Paganelli di Porcari in esilio a Pisa (1208-1244) a significare il loro schieramento politico e quindi i loro buoni rapporti con questa città.

I documenti fino ad oggi reperiti non ci consentono di dare risposte definitive circa l’appartenenza di Papa Eugenio III .illa famiglia dei Porcaresi, tuttavia, non solo non lo escludono, ma deporrebbero a favore di questa teoria.

 

Porcari.VillaRawhiantidetta“LaChiusainundipintoa oliosuteladiEugenioCarraresi

 

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Azzo da Porcari

 

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Raffigurato sul lato sinistro è un personaggio appartenente alla famiglia di Porcari vissuto fra l’XI ed il XII secolo, ed autore della Abbazia di Sant’Antimo, nei pressi di Montalcino: è Azzo da Porcari.

Il suo nome compare in una iscrizione sul portale della facciata che cosi lo ricorda:

«egregiae futi auctor previus aulete ataue libens operis por- tavitpondera tanti»,15

Azzo era un monaco ed oltre ad essere l’architetto di questa splendida costruzione, fu con ogni probabilità, anche il promotore del suo rifacimento.

L’Abbazia di Sant’Antimo, secondo la leggenda, si dice fosse stata fondata da Carlo Magno già dall’VIII secolo, a seguito di un fatto prodigioso accaduto allo stesso imperatore nel paese di Castclnuovo dell’Abate. L’esistenza di questa abbazia è comprovata da un documento di Ludovico il Pio risalente al secolo IX.

L nel XII secolo che l’abbazia raggiunge la sua massima ricchezza, importanza e fama. Diplomi imperiali e papali redatti nel XI1 e nella prima metà del XIII secolo testimoniano la vastità dei possedimenti di questa abbazia, seconda per importanza solo all’abbazia di Sesto presso

 

Montalcino, Siena,interno dell’Abbazia di Sant’Antimo

 

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Badia Pozzeveri, della quale già abbiamo parlato, ma accomunata dalla stessa sorte.

A partire dal 1250, inizia il suo lento declino, causato probabilmente dalla diminuita importanza dell ordine benedettino. Vengono venduti terreni ed annessi al Comune di Siena: la proprietà si sfalda ed il monastero fu concesso aH'ordine dei Guglielmiti, per poi essere definitivamente soppresso nel 1462 da papa Pio II. Soltanto alla fine del 1800, grazie all’atcenzio- nc dello studioso Antonio Canestrelli, si è riacceso l'interesse artistico nei confronti dell’abbazia di Sant’Antimo.

  1. lavori ebbero inizio nella primissima parte del 1100 e si interruppero per i motivi economici già detti, lasciando incompiuta la facciata.

    La chiesa romanica, in alabastro, graniti e marmi è a tre navate, delineate da semicolonne alternate a pilastri con capitelli scolpiti. La navata centrale è slanciata verso l’alto con copertura a capriate lignee, mentre le laterali, più basse, sono coperte da volte a crociera. Sotto la chiesa c'è una cripta molto piccola, ritenuta il più antico esempio in Toscana.

  2. campanile, addossato alla chiesa, è ancora incompiuto, ma è molto elegante, solenne, con i piani sottolineati da comici marcapiano ed

aperti con monofore e bifore. Il paesaggio d’intorno è di una bellezza struggente e l’abbazia, posta in mezzo alla vallata, più che interromperlo, sembra completarlo: di colore ocra, come quella terra, assume, verso il tramonto, riflessi rossastri che infondono nel visitatore urr senso di pace e di serenità.

«Ero in Toscana, era già buio e guidavo la mia automobile. Stavo scendendo la strada che da Montalcino conduce verso l’Amiata. A un certo punto, nonostante il buio, ebbi voglia di rivedere l’abbazia di Sant’Antimo. E senz’altro la più bella chiesa romanica del mondo, non solo per la pura bel- lezzu della costruzione, per la sua abside che assomiglia a una scorza d’arancia attaccata a un vascello per bambini, e per i ricami che addolciscono il frontone e il cornicione di tutto l’edificio, ma anche perché si trova in una valle che si può scorgere non appena passata la prima curva a gomito, e allora la strada scende dolcemente, come le carezze che mia nonna mi faceva sulla schiena quando ero piccino per farmi addormentare. E di fianco alla costruzione in pietra arenaria che tende al giallastro quando il sole, ci sono due cipressi a forma di pennello, e nient altro. Dopo la seconda cuna c’è una grande quercia, una quercia vecchia, molto vecchia, sotto la quale mi fermar».1

 

La famiglia Di Poggio

 

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Proseguendo sul lato sinistro troviamo raffigurati personaggi dediti alle comuni occupazioni. Al centro dell’immagine, un uomo porta una cesta ricolma dei frutti della terra. Questi prodotti sono destinati, simbolicamente, alla famiglia dei

«padroni».

Il quadro ci dà lo spunto per parlare dei signori Di Poggio che a partire dalla metà del 1400, ricoprirono una parte da protagonisti nel paese di Porcari, dove ancora oggi troviamo toponimi che ribadiscono questa presenza: «al Poggi», «al Poggetto», «Via di Poggio». 1 più vecchi tramandano una espressione dalla quale si può

capire la potenza di questa famiglia, non solo per il riflesso che aveva nella vita del paese, ma anche per la città di Lucca: « Quando Poggio poggiava, tutta Lucca tremava».

E da Lucca provenivano i Di Poggio, dove erano annoverati fra le famiglie patrizie, ricchissime per i commerci di seta praticati negli anni.

La loro consorteria era numerosa e stretti erano i legami che univano i vari rami della famiglia. A Lucca occupavano un intero quartiere che si chiamò con il loro nome, nei pressi della chiesa di San Michele, dove anche oggi resta Via Di Poggio.

 

StemmadellafamigliaDiPoggic

 

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Di Poggio a ricoprire la carica di Anziano della città. Nicol ao fu il primo, ma dai suoi parenti c discendenti quella carica fu ricoperta per oltre 200 volte; per ben 45 volte, assunsero la massima carica della Repubblica, quella di Gonfaloniere di giustizia. Non si contano poi i consiglieri, gli ambasciatori incaricati per conto della Repubblica.

•A forcati nel Quattrocento la ricchezza e il potere del contortalo si rafforzarono notevolmente. L'occasione fìt offerta da un matrimonio, senza dubbio il più importante nella millenaria storia della famiglia. Filippo Di foggio sposò il 20 giugno del 1421 una giovane donna, anche se giù vedova, Giovanna, ricchissima, ultima discendente ed erede della... famiglia dei forcami.... Questo matrimonio fa un vero colpo di fortuna: le ricchezze e i beni che Giovanna portò in dote, costituirono per i foggi discendenti da questa unione il nucleo più consistente del potere economico, identificato soprattutto nei beni di fortori*.'7

Furono i Di Poggio ad ingrandire la chiesa di San Giusto nel 1745. Fu Giovanni Di Poggio a donare alla chiesa nel 1512 il pregevole fonte battesimale18. Fu Lelio Ignazio Di Poggio, a contribuire con donazioni di denaro e terreni, quando si trattò, alla fine del secolo XIX, di ricostruire dalle fondamenta la chiesa come la vediamo oggi.

Agli inizi del 1500, la famiglia Di Poggio deteneva una gran parte del potere a Lucca ed aspirava ad occuparne porzioni sempre maggiori, specialmente dopo la caduta della signoria di Paolo Guinigi.

Si apre un conflitto tra le famiglie aristocratiche lucchesi (gli Arnolfini, i Buonvisi, i Burla- macchi, i Bernardi, i Trenta, i Cenami, i Bernardini, i Guidiccioni) e lo scontro politico degenera in lotte sanguinose e tragiche tali da mettere in pericolo la sopravvivenza della stessa Repubblica lucchese.

Ad accendere la miccia fu la successione della chiesa di Santa Giulia in Lucca (un piccolo edificio ma grande di entrate), apertasi con la morte del rettore nel novembre 1521.

Pietro Arnolfini, ex Gonfaloniere della Repubblica, lo rimpiazzò immediatamente con un proprio uomo, ma la cosa non piacque alle altre famiglie che videro in quell’atto la sfrontatezza di chi pone il potere pubblico a servizio dei propri interessi privati.

Vincenzo Di Poggio, allora ventisettenne

«...e molti giovani suoi seguaci, entrarono nella chiesa e dopo aver scacciato con la forza coloro che erano dentro, la occuparono fino a luglio, facendone luogo di ritrovo per tutti i giovani della compagnia di Vincenzo, con grande scandalo di gran parte della città».'9

Si cercò di comporre la vertenza per via politica e forse la richiesta di Vincenzo Di Poggio di parlare con il Gonfaloniere, fu intesa come atto di ravvedimento.

Alle 3 del pomeriggio di venerdì 11 Luglio 1522, Vincenzo ed i suoi uomini armati giunsero al Palazzo degli Anziani, entrarono nella camera del Gonfaloniere Girolamo Vellutelli e lo uccisero a pugnalate.

•Nello stesso tempo altri seguaci di Vincenzo entrarono in casa di Lazzaro Arnolfini, in quel mo-

 

Genealogia deiPortamiconGiovannaultimadiscendente. Da essaiDiPoggioereditaronoicospicuibeni.Da Al. SEGHIE/U» Porcari c i Nobili Po rea resi, un castello, una consorterìa. ComunediPoirari1985

 

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mento a colloquio con l’ex gonfaloniere Pietro Arnolfini e li lasciarono coperti di ferite ed in pericolo di vita».10

Questa banda riuscì a mettere a soqquadro l’intera città, incitando il popolo alla ribellione verso le istituzioni: «uccidiamo i tiranni e viva la libertà, muoiano i tiranni».

La «rivolta dei Poggi» però fu sedata. Vincenzo ed i suoi uomini ottennero un salvacondotto per lasciare la città, ma fu messa prontamente una taglia sulle loro teste.

Nonostante tutto, questi giovani ribelli non si danno per vinti. Ce lo conferma un fatto accaduto il 29 luglio successivo, quando Vincenzo a capo di gruppi armati, occupa a Porcari il palazzo del consanguineo Paolino Di Poggio, quasi fosse una roccaforte, per scontrarsi con le truppe che la Repubblica gli aveva messo alle calcagna.

Dopo questa incursione i ribelli si ritirarono nel pistoiese sotto la sicura protezione di Pietro Cellesi, capitano di Pistoia, in attesa e con la speranza di ricevere aiuti, appoggi o favori da Fi

renze, Roma o dagli agenti imperiali di Ciarlo V. La Repubblica di Lucca però non perdonava a chi attentava alle sue libertà istituzionali c mobilitò ambasciatori per ogni dove, affinché i governi collaborassero ad assicurare alla giustizia i rivoltosi, i quali nel frattempo si erano trasformati in banditi saccheggiando e bruciando le case a Bagni di Lucca, Borgo a Mozzano c Cerreto.

Nel 1525 un esercito di 6000 fanti circondò il castello di Lucchio dove i rivoltosi si erano asserragliati, ma nonostante l’imponente schieramento tutti i ribellii riuscirono a fuggire. Troviamo poi Vincenzo a Firenze, a servizio presso la corte dei Medici. Morirà ad Arezzo nel 1552. A seguito dei fatti del 1522, molti Di Poggio furono esiliati, altri giustiziati, confiscati i loro beni. Furono decapitati alcuni personaggi più umili che in qualche modo avevano collaborato alla rivolta, come quel tale Radicchio da Chi- fenti che poco prima della esecuzione ebbe a dire:

«gente come noi... gli ultimi a tavola ed i primi alla forca».

 

Lucca,piazzaSanMichel*.Lachiesaomonimacondinanzilecaseabitatedallaconsorteria

deiPorcaresiedaiDiPoggio. Porcari,laexvillaDiPoggio

 

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A carico dei Di Poggio di Porcari, con ogni probabilità, non fu provato un loro fattivo coinvolgimento in queste vicende, per cui fra le sanzioni applicate ci fu quella che non avrebbero mai più potuto concorrere alle cariche pubbliche della Repubblica lucchese. A memoria perenne dei crimini commessi dai Di Poggio, la Repubblica di Lucca ordinò che fosse posta nel Palazzo Pubblico, una pietra infamante con il seguente contenuto:

 

., PERI JX ;K QUISQUIS ADES LI B ERTATI S FAUTOR ri SC1AS QUAUS / FU ERI NT IN REE NOSTRA PODIORUM

/ FAMI HA. IIORUM OPERA PETRUS I CENAMUS UNUS

EX ANT1ANIS ANNO / MCCCCXXXV1 FUri INTEREMPTUS / ANNO DI INDI MDXX1I ANIMO / L1BERTAT1S OPPRI- MENDAE HIERONI / MUM VELLUTELLUM VE- X I I I F FI-RUM / IUST. FOEDISSIME TRUC1DA- RUNT. - TOTA AUTEM

CTVTTATE CONTRA EOS ARMA I CAPIENTE

PARRICIDAE EFFEUGERUNT / REBELLES FACT1. CONSCI1 CAPITE / SUNT MULTAR IN ALIOS E1USDEM DOMUS / MULTA EXTANT DECRETA DEO AGANTUR / GRATIL ET HAEC OBLIVIONI NON TRADANTUR».11

 

feretri,poUztoRossodipioForobosco

 

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Finalmente Lelio Ignazio Di Poggio nel 1757 ottiene l’autorizzazione a rimuoverla dal pubblico ludibrio, purché fosse ben esposta nella sala più ampia, quella dei ricevimenti, del loro palazzo in Porcari. Sotto questa, però, avrebbe dovuto essere scolpita ed esposta una seconda pietra a memoria della clemenza e magnanimità del senato lucchese:

«AMPLISS. SENATUI LUCENSI / OB AMOTUM A PUBUCO PALATIO SUPERJOREM LAPIDEM AC RESTITUITAM TOTAM PODIORUM / GENTEM PRISTINAE DIGINATATITANTAE CLEMENTIAE /

MEMOR LELIUS IGNATIUS / FRANCISCI DE PODIO / FILIUS P.C.A. AE. V. MDCCLVII».22 I Di Poggio

conservarono dunque, le proprietà ricevute in successione da Giovanna che erano veramente cospicue, come risulta dal testamento di Cesare, suo discendente.

Anche se a distanza di anni, riacquistarono il loro peso politico a Lucca.

Nel «Libro d’oro» del 1826, voluto c curato da Carlo Ludovico, la famiglia Di Poggio figura Ira le Nobiltà Nobili Patrizie, cioè fra quelle famiglie che potevano provare di aver goduto della nobiltà da almeno 200 anni. Fra annoverata anche nel precedente Libro d'oro del 1628 che doveva stabilire in modo inequivocabile c definitivo quali fossero le famiglie nobili a Lucca e quindi a chi spettasse io scettro del comando. Lelio Ignazio Di Poggio è l'ultimo rampollo di questa famiglia ad aver abitato a Porcari. Aveva donato a quella comunità parte della sua vigna e del suo giardino per rendere possibile la costruzione della nuova chiesa e nel periodo del colera dimostra tutta la sua umanità e la sua fattiva partecipazione al dolore collettivo.

 

Porcari, ilpalazzoRossoinunafotodeglianni*50

 

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Lelio Ignazio era nato a Lucca il 28 Gennaio 1800 da Giuseppe Tommaso Di Poggio e dalla marchesa Maria Angela Mansi.

Suo padre, oltre ad essere un buon giurista, chiamato anche a collaborare alla redazione del codice penale lucchese, fu Ministro nel 1801, Senatore nel 1805, Consigliere di

Stato nel 1806.

La camera di Lelio Ignazio fu anche questa molto rapida. Nel 1832, S.A.R. il Duca Carlo Ludovico di Borbone, lo nomina Segretario intimo di Gabinetto; un anno più tardi fu nominato Segretario del Consiglio di Stato, canea che detenne per circa 10 anni. Il 19 dicembre 1843 divenne Consigliere di Stato c nel 1844 Direttore del Liceo in sostituzione di Antonio Mazzarosa che era suo zio.

La scelta cadde su l elio Ignazio, sia perché le sue idee politiche costituivano una garanzia per i Borboni, sia perché il Di Poggio, apparteneva ad una illustre famiglia, era uomo di molta cultura. Conosceva la filosofìa, la matematica.

il diritto; parlava francese, greco, tedesco e inglese. Era un esperto di disegno.

Il 13 Giugno 1847 fu nominato Ministro per l'Interno e ricoprì tale carica fino alla cessazione del governo borbonico, per abdicazione del Duca.

La sua posizione politica lo rese forse inviso a qualcuno tanto che la sera del 22 gennaio 1850 fu vittima di un attentato nei pressi della Chiesa de’ Servi a Lucca.

Il Sardi attribuisce l’attentato non a cause politiche, sebbene ad una vendetta privata.

Il Di Poggio dichiarò che aveva conosciuto il feritore ma gli aveva perdonato.

A questo punto Lelio Ignazio vuole ritirarsi a vita privata e godersi la pace della sua villa in Porcari; ma il Granduca, il 14 Ottobre 1850, a pochi mesi dall’attentato subito lo nomina Gonfaloniere del Comune di Capannori.

Ebbe altri incarichi e riconoscimenti e fu insignito di molti ordini cavallereschi. Morì il 18 Giugno 1877 a seguito di una malattia che lo

 

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aveva costretto a letto fin dal febbraio precedente.

Il sacerdote Niccolò dei Marchesi 'lucci, pronunciando l’elogio funebre di I.elio Ignazio Di Poggio, nella chiesa di Santa Maria Forispor- tam, conclude:

«Egli visse 77anni, vita assai lunga per il corso della vita mortale, ma brevissima pel desiderio comune. Non lasciò figli, non avendo menato moglie; ha lasciato peraltro la sua memoria in benedizione. Rinunziò agli affetti di sposo e di padre, per offrire a Dio solo più puri e più graditi gli affetti del cuore».

Lasciò scritto nel suo testamento di voler funerali modestissimi, more pauperum, secondo il costume dei poveri, e di essere sepolto in un campo comune e non tumulato in un sepolcro distinto.

 

Le epidemie

 

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Sul lato destro. Maiani illustra la scena di una delle tante epidemie che portarono a Porcari disperazione e lutti.

Tra il 1629 ed il 1631. come in ogni parte d Italia del resto, imperversò la peste. Il piccolo cimitero che occupava quel triangolo di terreno tra l'attuale Via Roma e Via Catalani, partendo dalla stele dedicata alla Madonna Immacolata per una profondità di circa 100 metri, non lu sufficiente ad accogliere tutti i cadaveri e si dovette pensare ad una nuova collocazione. In quella occasione morì anche uno dei due figli di Giovanni e Cassandra Di Poggio. Di questa prematura morte, testava memoria in una lapide, datata 1631, posta nella cappellina del ci

mitero con la quale i due genitori ringraziavano Dio per aver salvato l’altro figlio.23 Questa lapide è andata dispersa, come non esiste più quella cappellina detta degli «Orfei», eretta a ricordo del vecchio cimitero ed abbattuta intorno al 1930 per incomprensibili «motivi di viabilità».

La peste del 1630 non era né la prima né, purtroppo, sarebbe stata I ultima delle grandi epidemie. Le condizioni di vita precedentemente descrìtte, le lunghe carestie causate da un disordinato sistema idrico, la vicinanza di paludi malariche, le frequenti alluvioni costituivano fattori per cui il porcarese conviveva con le calamità, seppur mai con rassegnazione. Ci fu una

 

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epidemia di tipo petecchiale nel 1816 e 1817 ed a Porcari, in quegli anni si registrò una mortalità quasi doppia di quella degli anni precedenti e di quelli immediatamente successivi. •Era questo tifo una malattia febbrile acuta infiammatoria, nervosa, putrida, e sovente tutte queste micidiali qualità si riscontravano insieme unite. Annunziavasi con un repentino mutamento di carattere, coll’inerzia, coll’indebolimento di ogni desiderio, con una stanchezza inusitata e grave così, che non trovava ristoro neppure nel sonno. Ordinariamente spegnevasi la vita al ventesimo o ventisettesimo giorno. Per chi aveva la ventura di superare la malattia, la convalescenza si estendeva a più settimane; lo spossamento di tut

ta la persona continuava per mesi. e spesso restava coll’epidermide squamata, spelato del capo e del volto: a non pochi caddero le unghie; a molti rimasero tracce del malore per molto tempo». '1 Nonostante le continue prove cui era sottoposto e le avversità, il contadino lucchese non si dava facilmente per vinto. Quando la pioggia persistente impediva la semina, il contadino approfittava dei pochi spazi di sereno per prolungare l'opera nei campi fino a notte inoltrata. •Se il lume di luna favorisce, niente hawi di straordinario; ma a notti oscure si illuminano con fiaccole di canne e di stipe. E uno spettacolo commovente il vedere allora dall'alto la pianura come in festa e sapere quale ne è la cagione».

 

Porcari,Rughi:transitodeltaprocessionedinanziallaCrocedetta"almedio"perché

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Nella primavera del 1854 scoppiò in Toscana una epidemia di colera. Nel settembre, si ebbero i primi casi a Porcari: 10 persone che morirono fra atroci dolori, nello spazio di poche ore daJl’apparire dei sintomi. La malattia si manifestava con nausea, vomito, diarrea e crampi dolorosissimi. Alla disidratazione dell’organismo seguiva irrigidimento delle membra e rapida morte. Coi primi freddi l’epidemia sembrò regredire; non restava che sperare in un inverno rigido che ne estirpasse definitivamente il seme. Invece, ad un gennaio freddo e spesso freddissimo, come annota scrupolosamente il Marchese Provenzali nel suo diario, segui un febbraio piovoso, con straripamenti di fiumi e torrenti, allagamenti, che provocarono frane di alcune strade, danni agli edifici, paralisi nei collegamenti ferroviari. Al disagio provocato dalle inondazioni segui la quasi totale perdita dei raccolti. Ci fu una recrudescenza del colera, favorita certamente dall'ambiente c dalla malnutrizione. Dal 1" febbraio di quell'anno al 31 ottobre, si contarono in toscana quasi 26.000 vittime su

50.000 casi segnalati. A Porcari, dal 23 Luglio al 23 Ottobre (un solo caso si verificò nel mese di Ottobre!) morirono 117 persone.

Il Trinci riferisce che •...a Porcari gli attaccati dal colera erano visitati a domicilio ed ivi assistiti; furono trovati quasi tutti nella massima miseria, giacevano sulla paglia, in terra, erano dominati dallo spavento e diffidenti delle medicine in modo che ricusavano di curarsi per timore che le finsero dati dei veleni per farli morire. Appena un

individuo era attaccato dal colera che il resto della famiglia fuggiva per lo spavento...»26 I colerosi venivano curati con vapore canforato, olio mischiato con agro di limone, caffè amaro, acqua tiepida, fregagioni. Si raccomandavano ancora tutte le misure igieniche da osservare, come la pulizia delle case, delle strade e dei luoghi pubblici; si sconsigliavano gli assembramenti, si suggerivano cautele prima del- l’ingerimento di cibi e bevande. L’epidemia aveva però assunto proporzioni da sciagura e le precauzioni servirono a ben poco. Inoltre, la gente sconvolta dai fatti, non era forse nelle condizioni più adatte per recepire questo genere di messaggi.

Di fronte all’immane tragedia, il popolo di Porcari «...si confessò, fece tridui, preghiere e quanto potè per placare la divina giustizia (...). In tale circostanza, le donne specialmente si spogliarono dell’oro e dell’argento e donarenlo alla SS. Vergine del S. Rosario. (....) La SS. Vergine però impetrò dal suo santo Figlio la cessazione del morbo, che se ciò non avesse fatto e se avesse proseguito il morbo in una popolazione di circa 4.000 anime, Dio sa quanti più ne sarebbero morti, per cui tutti, all’unanimità d'accordo (...) stabilirono di ringraziare ogni anno la SS. Vergine del S. Rosario, con doppio solenne e orazione analoga».27 Questa devozione alla Madonna del Rosario continua ancor oggi e si celebra, ogni anno, la prima domenica di ottobre, proprio perché i casi di colera cessarono il mese di settembre

1855“

 

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Il medico Carlo Galgani

 

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«Certamente; sul imito degli abitatori di Porcari, per gli infortuni sofferti, leggo sempre impressa la mestizia, la paura, lo sgomento. Io amo davvero questi buoni abitatori, ne prendo dolore, molto più riflettendo fra me stesso che altre disavventure li circondano e li premonofuor di misura, perché il mondo va di male in peggio».

A fare questa constatazione, all’inizio del 1856, appena superata l’epidemia, era il dottor Carlo Galgani, «medico pratico» che viveva a Porcari da oltre venti anni e che vediamo raffigurato ancora a destra.

Abitava nella frazione di Rughi, nella prima casa di quella via che porta il suo cognome. Il luogo dove abitò, anche oggi si chiama «al medio», per l’elisione della «o, all’uso toscano.

Nato nel comune di Borgo a Mozzano, gli viene affidata la condotta di Porcari, Badia Pozzeveri, Gragnano e S. Martino in Colle nel 1834. A Porcari nacquero i suoi figli: Carolina nel

1834, Maurizio nel 1836, Elisa nel 1838,

Enrico nel 1842, Elcna nel 1843.

Unico medico nel territorio affidatogli, fu assorbito completamente dalla condotta, ma trovò il tempo di dedicarsi allo studio e farsi un quadro preciso delle malattie più comuni che angustiavano la popolazione. Sperimentò cosi i rimedi più efficaci per combattere quelle febbri intermittenti che avevano generalmente origine ipo- sten ica. La vicinanza del lago di Sesto, «paludigno c malarico», se per un verso rappresentava una fonte di sostentamento per la sua pescosità, dall’altro costituiva un serbatoio di germi che davano luogo a fèbbri tenaci e persistenti. Raccolse le sue osservazioni in un libretto dal titolo «Annotazioni Pratiche sull'uso del solfato di chinina e del solfato di fèrro» che pubblicò nel 1838.

All apparire del colera, nel 1854, scrivendo l'operetta •Della Regola di vita da praticarsi dominan

 

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do malattie contagiose» incese suggerire, con un linguaggio chiaro ed accessibile, le opportune resistenze. Quando, l’anno dopo, divampa il colera, il dottor Galgani è in prima linea. Si può solo immaginare quale fosse stata la sua vita in quel perìodo. Occorreva visitare non solo chi era stato contagiato, non solo i familiari che avevano condiviso con lui gli ultimi giorni di vita, ma anche chi, terrorizzato da quella ecatombe, temeva di rimanere vittima dell’epidemia. Se aggiungiamo al tempo per effettuare le visite, quello occorrente per spostarsi da un punto all’altro del territorio affidatogli, possiamo forse farci una idea di quella sua impresa.

I n aiutato certamente dalla sua calda umanità, dal rispetto e dalla considerazione del prossimo, da un alto senso di responsabilità. Non scrìsse mai per la scienza o nella speranza di ricevere riconoscimenti; scrisse per la società con il desiderio di essere di un qualche aiuto.

•l'uomo non è nato per tèsolo, né per godere di tutte le sue dovizie, né per far pompa dei suoi talenti, né per vivere come qualcuno mattamente ha sognato, solitario e romito fuori dell'umano consorzio».

Fu istintivamente educatore e si batte affinché l'istruzione venga estesa ai ragazzi

«campagnuo- li« fra i quali difficilmente si trova chi sa leggere e scrìvere e plaude c cerca di stimolare tutte quelle iniziative che tendono a liberare la gioventù dalla schiavitù dell'ignoranza.

In questo spirito, nel 1849 pubblica il libro

«Questi morali precetti» che dedica ai figli. Venti anni piu tardi, scrìve gli «Avvertimenti morali per i ragazzi delle scuole elementari di Porcari».

Nel libro suddiviso in dodici avvertimenti, Carlo Calcini insegna ai ragazzi di Porcari a rispettare ed amare i propri genitori, autori della loro vita e della loto esistenza; ad ubbidirli, soccorrerli nei bisogni materiali e spirituali, assisterli in punto di morte. In un successivo avvenimento, il Galgani raccomanda ai giovani di fare buon uso del tempo che è «preziosissimo» e presto viene il momento di renderne conto.

All'epoca in cui Carlo pubblicò questo libro, la famiglia Galgani aveva subito notevoli mutamenti. Carolina, la figlia maggiore, si era maritata ed era andata ad abitare a Camaiorc. Maurizio si era burraio in medicina ed aveva preso il posto del padre nella condotta. Si era mosso tutto

il paese perché venisse esaudita, nel 1862, la richiesta di Carlo Galgani diretta al Gonfaloniere intesa a farsi sostituire nella condotta dal figlio. Enrico, laureato in farmacia, si era sposato con Aurelia Landi di S. Gennaro. La giovane coppia si stabilì a Porcari, occupando il primo piano della casa del vecchio medico. Al piano terreno dello stesso fabbricato, dove nel 1865 i fratelli Galgani avevano aperto una rivendita di sali e tabacchi, Enrico aprì la prima farmacia di Porcari, che vi rimase fino al 1870, quando, per motivi «amministrativi» dovette trasferirsi a Borgonuovo, facente parte di altro circondario.

Nella breve permanenza di Enrico ed Aurelia, a Porcari, nacque, nel 1869, Carlino il primo nipote del dottor Carlo e certo, il più amato. Carlino muore all’età di sei anni, lasciando il nonno nella disperazione che traspare da queste sue parole: «Esso era tutta la mia consolazione, ed avea ilpotere di raddolcirmi persino le amarezze della vita. Ogni detto, ogni guardo, ogni tratto, che io vado ricordando di questo mio Carlino, è un carnefice che mi straccia a brani. L’ombra sua ancor si aggira intorno a me. A me sembra venga meno il mondo ai miei piedi. Ogni cosa mi si para innanzi con nero e lugubre aspetto. Ogni cosa mi riempie d’orrore. Invano stendo le braccia per stringere chi. più non è. Invano gli corro dietro col pensiero e lo chiamo. Ad ogni stropiccio di piedi mi sembra che si avvicini a me. Mi sembra di sentir la sua voce, di sentirmi chiamar nonno, nome, che pronunziava spessissimo, saltando, ridendo, tutto contento...». A Borgonuovo, dove il farmacista Enrico si era trasferito, nasce nel 1878, Gemma Galgani, sorella di Carlino, quinta di otto figli. La bambina che diventerà santa, era spesso a Porcari, alia casa del nonno che distava dalla sua, poche centinaia di metri. Il vecchio medico fu anche per lei il primo insegnante e precettore: Gemma lo ricorderà con grande commozione.

Il 7 febbraio 1881 muore la signora Margherita Orsini, che aveva condiviso con il dottore le gioie c le amarezze della condotta di Porcari. 11 Galgani, ormai abbandonata la professione si dedicava alla educazione dei nipoti e ad opere sociali. Fonda a Porcari una Sezione dell’Opera dei Congressi Cattolici, di cui sarà il primo Presidente. Lavorerà per quello che ormai considerava il suo paese fino alla morte, avvenuta il 4 giugno 1888.

 

Eufrosina Ramacciotti

 

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Proseguendo ancora sul lato destro troviamo l’immagine di Eufrosina Ramacciotti.

Per i porcaresi, lei è stata una santa. Nata a Porcari 1 ’8 febbraio 1842 da Pietro c da Maria Domenica Ramacciotti, abitava a Rughi, in località detta ‘ai Laoni’ ed in prossimità della chiesa, che allora era un oratorio, dove venivano celebrate le messe soltanto nei giorni di precetto.

Fu avviata ben presto al lavoro dei campi; andava ad opre, come si dice, perché i fondi da lavorare appartenevano ad altri. Il suo lavoro era tuttavia necessario per le condizioni di estrema miseria della famiglia.

D inverno continuava a rendersi utile andando a servizio nella casa del dottor Galgani; era coetanea dei suoi figli. Prima di andare nei campi, assai presto la mattina, veniva a Porcari per assistere alla Messa e quando le era consentito si attardava in chiesa, assorta, per ore, in preghiera. Il sacerdote Olivo Dinclli che allora era appellano a Porcari e che fu il direttore spirituale della bambina rimarca la povertà dignitosa di Eufrosina che alia domenica, prima di andare in chiesa, si vestiva un po’ meglio degli altri giorni, •...ma tempre in maniera la più semplice, la più modesta. Aborriva anche l'ombra della superfluità.

 

Chiamatasi contentissima di aver un vestimento per coprini nell'estate e uno nell'inverno. Nelle sue vesti non si scorgeva mai una bruttura, tanto amava la pulizia e l'ordine. Copriva il suo capo con bianca pezzuola e con altra di serio colore cingeva il collo, e portava nei piedi scarpe alquanto rozze».**

Sul conto di questa ragazzina povera e semplice, si cominciarono a raccontate cose straordinarie, come quando — il fatto è riferito dal Barsotti30 — intenta al lavoro dei campi, si pone in ginocchio e si mene a pregare sono un improvviso acquazzone. Al cessare di questo, i compagni, tornando al lavoro, la trovano perfettamente in ordine ed asciutta.

Nel 1872, a trenta anni, contrasse la fèbbre miliare, una malattia epidemica che si manifestava con una febbre molto alta; il corpo si riempiva di piccolissime vesciche c la pelle appariva granulosa, come cosparsa di granelli di miglio; da qui il nome di febbre miliare o migliare. Tuno l'organismo si indeboliva rapidamente predisponendo il malato a contrarre altri tipi di malania. Eufrosina soffriva molto, ma a chi la compativa lei era pronta a sminuite la sua sofferenza facendo il raffronto con chi stava sopportando ben più atroci dolori. Un esercizio pietoso che ella compieva sistematicamente e senza pretendere nulla era la cura degli ammalati. Durante il colera, Eufrosina che aveva appena 13 anni, forse al capezzale di un ammalato si incontrò e fece amicizia con Eletta Guerra. Elcna allora aveva venti anni. Apparteneva ad una ricca famiglia ed abitava a (. .mugliano, a meno di un chilometro dalla casa dì Eufrosina. Durante l'epidemia di colera. Elena porta soccorso con cibi tolti dalla sua dispensa; porta medicine, biancheria, e con gli infermi poveri e più bisognosi si trattiene a lungo, per confortarli. Le due ragazze, di opposta condizione economica, ma unite dagli stessi ideali, si incontreranno poi spesso.

La signorina Santa, come chiamavano a Porcari Elena Guerra, rimaneva incantata di fronte alla semplicità, alla umiltà di Eufrosina, che, secondo il Barsotti era l'ispiratrice di quel suo libretto. ‘La Pia contadindia', pubblicato nel 1858. Nel 1874 la miliare, che era nel frattempo sparita, toma ad assalire con maggiore veemenza Eufrosina; le crisi si susseguono per tutto l’anno e

per l’anno di poi. Il sacerdote Dinelli che nel frattempo era stato nominato Rettore di Gragnano, ogni quindici giorni si reca al capezzale della giovane inferma. Un giorno d’aprile del 1875, nel corso di una di queste visite, la ragazza gli confida: «Ho sempre dimandato al Signore di stare in terra non più che tutto quel tempo che Esso vi stette. Gli chiesi allora che mi colpisse con una malattia, la quale mi consumasse a poco a poco, e mi desse coraggio e pazienza nel sopportarla. Tutto questo indegnamente, ho io ottenuto. Ora poi ho domandato al signore di morire nelprossimo mese di Maggio».*' Morì infatti quello stesso mese. Il giorno ventisette, solennità del Corpus Domini, a tren- tatré anni ed il sacerdote Dinelli ricorderà:

«Ai suoi funerali il paese prese parte con la devozione con cui si suole andare ad onorare un personaggio non comune, essendo convinzione d'ognuno che la verginella non fòsse da annoverarsi nel numero dei morti. La sua sepoltura, poco distante da quella di Carlini1, nel vecchio cimitero, si volle segnata duna bianca pietra, ch’io stesso vidi, affinché non si perdesse memoria di questo luogo benedetto»}*

Il vecchio Galgani, ammirato egli stesso dal comportamento di Eufrosina tenuto nel corso della vita e della malattia, rilascia al sacerdòte Dinelli, questa dichiarazione: «Il sottoscritto medico pratico dimorante a Porcari, certifico di aver prestato la mia assistenza ad Eufrosina Ramacciotti di detto paese nella lunga e penosa malattia, che l’ha condotta al sepolcro. Essa, nelle moltissime visite ch’io le faceva, mi mostrava sempre all’evidenza di godere la pace di spirito, e soffriva volentieri e pazientemente in un modo che non è credibile, quanto erosi accostumata a soffrire. Confèsso con schiettezza: sono molti lustri che io mi son dedicato al pratico servizio dell’arte salutare e niun altro inférmo ho veduto così buono, casi tollerante, così coraggioso e disposto ad uniformarsi alla volontà di Dio, quanto la surriferita Eufrosina. Io ne restava stupito e sorpreso e sempre più, ne andava acquistando bruma estimazione. In fède, dott. Carlo Gaimoni».**

A Porcari tutti la ritenevano santa ed eia convinzione generale che dopo cent’anni dalla morte sarebbe spuntato sulla tomba di Eufrosina un giglio fiorito."

 

San Leonardo da Porto Maurizio

 

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Ci spostiamo a sinistra, dove Maiani rappresenta l’immagine di un grande predicatore: Padre Leonardo da Porto Maurizio che diverrà santo.

Della presenza di San Leonardo a Porcari resta una traccia nel palazzo Di Poggio, posto in alto, a sinistra della Chiesa: una iscrizione su pietra grigia che fa da base ad una croce anch’cssa di pietra. Vi si legge:

 

PATRE LEONARDO A PORTU MAURITIO CUM INGENTI ANIMORUM LUCRO SACRAS OBEUNTE M1SSIONES

UT CIRCUM SE POPULORUM MULTITUDINI FIERET SATIS E TEMPLI ANGUST1IS EXPRESSA PIETAS

 

AUGUSTISSIMI CHRISTI CORPORIS TEMPORANEAM UIC STAI IONEM PONKBA'I MENSE IUNIO ANNO MIXXXXIII "•

La lapide fu posta in occasione delle Sacre Missioni del 1723.

San Leonardo, al secolo Paolo Girolamo Casanova, era nato a Porto Maurizio (oggi Imperia) il 20 Dicembre 1676. Col nome di Ironardo vesti il saio dei Frati Minori il 2 Omtitnoabtireg1li6s9t7udlie,ilo ordinato sacerdote il 23 Settembre 1702, ma soltanto nel 1708, dopo essere miracolosamente guarito da tubercolosi, potè iniziare il suo ministero apostolico predicando per gran parte d’Italia, per oltre 40 anni.

Il suo desiderio era quello di andare missionario in Cina, ma agli inizi del 1700,1 Italia ave-

 

1512c

 

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va abbastanza miserie e sufficienti disgrazie per essere considerata terra di missione c cosi la sua Cina diventò l'Italia. Missionario restò, come aveva sempre desiderato, tanto che Alfonso Maria de' 1 ignori lo definì «il più grande missionario del nostro secolo».

I ra gli altri, a Padre Leonardo viene riconosciuto anche il merito di aver salvato il Colosseo da sicura rovina. In occasione di una sua predica per il Giubileo del 1750, installò la Via Crucis nel Colosseo, dichiarando quel luogo sacro per i Martiri, impedendo cosi I ulteriore sfacelo ilei monumento, considerato fino allora alla stregua di una cava di buona pietra ed a buon mercato, la tradizione del rito della Via Crucis al Colosseo, iniziata nell Anno Santo del 1750 da San Leonardo da Porto Maurizio, sarà poi ripresa nel 1964 da Paolo VI.

 

La Via Crucis e la Passione di Cristo costituiva il tema principale della sua predicazione. Nella penombra delle chiese, al lume delle torce nelle piazze aperte, parlava di Cristo flagellato, facendo rivivere in modo drammatico e tragico il supplii io dell'Uomo.

Era un grande predicatore, fascinoso e carismatico, capace di smuovere folle oceaniche:

una volta a Roma, per il grande afflusso di popolo, fu costretto a spostare i suoi fedeli nell’immensa Piazza Navona. Tutte le chiese erano troppo anguste per il suo uditorio ed anche quella di Porcari non potè accogliere nel 1723, tutti i fedeli sia di Porcari che quelli provenienti dai paesi vicini e Leonardo predicò nel grande cortile di villa Di Poggio, dove per molti anni, a ricordo della prima visita del Santo, si usò ancora celebrare la Comunione generale.

Rimase a Porcari per quasi tutto il mese di giugno, erigendo la prima Via Crucis nella chiesa parrocchiale, predicando e confessando.

•La frequenza ai confessionari fu continua per la grande moltitudine di fedeli che vennero da altri comuni e da altre diocesi della Toscana. Erano alle porte della chiesa sino dalle otto ore di notte lunghe code di persone per la confessione e tutti volevano essere confessati dal Missionario. Questa fu la prima grande memorabile Missione che a distanza di anni i paesani ancora ricordano con orgoglio e, fórse, con nostalgia».

Molti fedeli erano venuti a piedi, altri a dorso d’asino, altri ancora, quelli che provenivano dal pisano e dal fiorentino, per via d’acqua, utilizzando l’Amo e le sue canalizzazioni prima di immettersi nei vasto lago di Sesto ed approda-

 

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re in uno dei tanti porticcioli che lo contornavano.

I pellegrini dell’acqua avevano cosi assistito al volo radente delle folaghe, •volatili neri, quasi della grandezza delle anatre selvatiche, col becco a punta e con ampie zampe palmate grazie alle quali possono nuotare velocemente: sulla testa hanno

una macchia bianca. Si trovano in branchi di molte migliaia e non volano mai fuori del lago, arvu cercano sempre di tenersi sopra l'acqua». "

Con ogni probabilità, la chiesa di Corcati

all'epoca delle Missioni di Padre Leonardo, era quella descritta nella visita pastorale del 1726:

 

LapidearicordodelleMissionidelpugno1723

 

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alla vecchia chiesa ristrutturata alla fine del 1500 era stata asinina una nuova navata sul lato di settentrione ed una nuova torre campanaria tutta in mattoni che sostituiva la torricel- la con due campane posta sopra la parte ante- noie del tetto.”

la taa lata della chiesa era rivolta verso il vicolo loschi.

Padre Leonardo soggiornò di nuovo a Porcari dal 27 al 29 febbraio 1744, ancora in occasione di lavori di ampliamento della chiesa che da due, passò a tre navate e fu allungata verso valle, per far fronte alle esigenze della popolazione che da 720 anime dei 1651 era passata a 2062.

Dotata di cinque altari, era lunga 45 braccia, senza considerare lo spazioso coro, c larga 31. Il Santo fu ancora a Porcari nell'agosto dei 1751. sempre ospite della famiglia Di foggio, alla quale era molto affezionato e della quale fa

ceva parte Maria Angela Spada, sua figlia spirituale, c consorte di Francesco Melchiorre Di Poggio. Morì a Roma appena tre mesi dopo: il successivo 26 novembre.

Fu beatificato il 19 marzo 1796, fatto santo dal Papa Pio IX il 29 giugno 1867 e dichiarato Patrono dei missionari nei paesi cattolici il 17 marzo 1923 dal Pontefice Pio XI; patrono della città di Imperia a partire dalla metà degli anni novanta.

In questa pittura, non possiamo quindi fare a meno di notare l'apparente incocrenza cronologica della chiesa di San Giusto ritratta come è oggi, che fa da sfondo alla figura del Santo predicatore, morto oltre cento anni prima della sua costruzione. Il Maestro Maiani attribuisce all'cfiètto delle predicazioni del Santo la costruzione del nuovo Tempio che preconizza bianco, grandioso e solenne come una cattedrale a servire le devozioni di un popolo che tanto aveva amato.

 

La chiesa di Porcari dedicata a San Giusto

 

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Ancora avanzando sul lato sinistro troviamo la figura di San Giusto, patrono di Porcari, che sembra annunciare la costruzione della nuova chiesa.

A sinistra, in basso, Maiani riproduce la lapide funebre di epoca romana, ritrovata in zona circostante il lago di Sesto, a memoria di insediamenti, nel nostro territorio, assai lontani nel tempo.

Giusto fu vescovo di Volterra e come Padre Leonardo da Porto Maurizio fu un grande predicatore e missionario.

Visse nel secolo VI, al tempo di San Frediano. Risulta che di ritorno dall’Africa, Giusto con altri sacerdoti, Cerbone, Fiorenzo, Regolo, Ottaviano e Clemente, a causa di una tempesta, fu costretto a sbarcare sul litorale toscano, nei pressi di Populonia.

La leggenda racconta che successivamente Giusto Clemente ed Ottaviano si diressero a Vol

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terra, assediata dai Vandali e fu qui che Giusto, poi proclamato vescovo della città, riuscì a liberare la popolazione dall assedio. Io fece, gettando dalle torri di protezione, come vediamo nella pittura del maestro Maiani, del pane. Qualcuno dice che i vandali ritennero di abbandonare la morsa, convinti che la popolazione, avendo tanta abbondanza di cibo, da gettarlo sugli assediami, avrebbe potuto resistere all'infinito. Altri, dicono che San Giusto gettò il pane affinché fosse condiviso da tutti c quindi il pane diventò il mezzo per concludere la pace.

La leggenda vuole ancora che San Giusto lasciasse la propria impronta su una roccia lungo la via vecchia volterrana, oggi chiamata «Masso di San Giusto».

Questo è il unto patrono di Porcari, al quale, già nel secolo decimo gli fu dedicata la chicu c da allora più volte ampliata, al crescere della popolazione.

 

La chiesa però che vediamo oggi, è stata costruita interamente, dalle fondamenta al tetto, nel secolo XIX. Sorge in uno spazio già occupato dalla precedente, ma rispetto a questa, è molto più grande e maestosa ed è orientata verso Lucca anziché verso il compitese.

L'idea di costruire una chiesa idonea ad accogliere ('accresciuta popolazione si concretizzò nel 1848, quando il gruppo dei promotori di questo ambizioso progetto, stabilì contatti con l'arch. Cesare Lazzarini di Lucca, affinché preparasse perizie disegni c computi. Nel frattempo si raccoglievano le elemosine con la speranza di potersene servire al più presto e dare finalmente inizio ai tanto sospirati lavori. Nel 1857 però il progetto era ancora sulla carta e soltanto il 27 aprile 1858, ottenuto il terreno per l'ingrandimento da «S.E. e Cavaliere Ignazio I .dio Di Poggio», si eresse l’impalcatura ed il successivo 25 maggio fu benedetta e collocata la prima pietra.

Squadre di barrocciai, alcune volte durante la notte, si recarono alla cava di Guamo e nella Pesci a di Collodi per tornare carichi di pietre, rena e calce. Dal canonico Andreotti, sappiamo che essi lavorarono con •unione e pace straordinaria*.

Scelsero subito un capomastro all'altezza della situazione, con referenze ineccepibili; si trattava di Giuseppe Picchi di Antraccoli che aveva lavorato per anni, •invecchiato in assistere a grandiosi lavori, specialmente sotto il celebre architetto Nottolini».

Cera bisogno di tutto e tutto doveva essere comprato, perfino la •sugna per ungere i canapi», perfino l'acqua che doveva essere portata a botti sul piazzale per spengere la calce. Per

15 lire e 61 centesimi fu acquistato a Laminari un ■bi miccino» che doveva servire alla fàbbrica della Chiesa, con risparmio di molte vetture. Per far fronte alle innumerevoli spese, le questue vennero raddoppiate e chi non lavorava direttamente alla costruzione, lavorava comunque per la realizzazione dell opera. U sindacato comprava la canapa grezza perché le donne in casa, la potessero filare e tessere; il ricavato finiva nelle casse della fabbrica. Comprava il lino allo stesso scopo. Insieme ai propri, i con

tadini allevavano i bachi da seta della chiesa per raddrizzare in qualche modo i bilanci. Gli avanzi di tutte le Congregazioni presenti nel paese venivano devoluti alla costruzione; di domenica, si vendeva all’incanto, sul piazzale della chiesa, la roba vecchia donata dalle famiglie.

Il 19 Novembre 1859 capita la prima disgrazia che non ebbe, fortunatamente conseguenze irreparabili: il ponte dove lavoravano i muratori, crollò sotto il peso eccessivo e tutti riportarono conseguenze più o meno gravi.

Nel 1863 si cominciò a sfare il vecchio campanile, contiguo alla chiesa e posto a nord di questa. Era una costruzione in pietra, poco più di 30 metri, ormai al limite della praticabilità. Quando iniziarono le operazioni di disfacimento le campane vennero provvisoriamente alloggiate sul piazzale, issate su travi. Fu chiamato «il campanile di legno» e suscitò l’ilarità degli abitanti dei paesi vicini che, secondo il costume, lo fecero immediatamente oggetto di un velenoso epigramma: «/ porcaresi che son tanto ricchi — han messo le campane sugli stecchi — e quando piove ci si bagnan tutti».

Il particolare del «campanile di legno» non è -.fuggito al Maiani, che lo rappresenta nella pittura.

Mano a mano che i lavori proseguivano e le spese crescevano, i componenti del sindacato per la costruzione della chiesa, cominciarono a disperare di poter tirare a termine una così grande opera ed in data

23 giugno 1867 rivolsero un accorato appello al Ministero dei Lavori Pubblici per ottenere un sussidio. Aspettarono fiduciosi una risposta, ma la fiducia, evidentemente, era mal riposta.

Seguirono altre suppliche, ripetute di anno in anno. Da ultimo, si pensò di stabilire un collegamento diretto con il Prof. Francesco Carrara, il famoso penalista, quasi un concittadino, perché proprietario di alcuni terreni in Porcari, ed a quel tempo deputato alla Camera, affinché si interessasse al sussidio.

Nonostante il suo intervento, quei soldi tanto attesi non arrivarono mai, ma nonostante il mancato aiuto, i porcaresi riuscirono a portare a compimento la loro chiesa ed il loro campanile cosi come l'avevano progettato, anche se al-

 

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le autorità era sembrato un progetto troppo

«.grandioso».

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Il 10 dicembre 1880 fu terminata la facciata disegnata dall’ing. Francesco Tucci, con le tre statue in alto «... a rappresentare l’una il Salvatore, l’altra la SS. Vergine e la terza S. Giuseppe», opera dello scultore Raffaele Pieri di Lucca, e le due più in basso, a rappresentare San Pietro e San Giusto, opera di un giovane di Serravezza, lo scultore Antonio Bacci, al quale si dette poi l’incarico di costruire l’altar maggiore.

Due giorni più tardi, il 12 Dicembre 1880, fu inaugurata la nuova chiesa, progettata 32 anni prima, iniziata da oltre 20 anni e che a quel punto costava alla comunità l’iperbolica cifra di lire 143.344 e centesimi 26.

Le spese però non erano finite: le porte provvisorie dovevano essere sostituite con quelle previste dal progetto; i pilastri dovevano essere ricoperti con tavole di marmo; mancavano i pavimenti, l’organo e le vetrate istoriate; gli altari laterali restavano in attesa di essere rifiniti, non c’era il fonte battesimale né campane sul campanile.

Mancavano infine le decorazioni pittoriche, ordinate al maestro Michele Marcucci che le iniziò il 18 novembre 1901, dopo una trattativa

 

Porcari, chiesadi S. Giusto, l'interno

 

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Porcari, il campanile

 

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lunghissima ed estenuante con il sindacato che sopraintendeva ai lavori e che per necessità, cercava in ogni modo di risparmiare sul prezzo. Quando fu finito, il lavoro del Marcucci fece eco in tutta la provincia. Vennero parecchie persone da fuori a visitare la chiesa e l’Esare nell’edizione del 19 Agosto 1905, dedicò un’intera pagina all’avvenimento.

In occasione della morte del prof. Marcucci avvenuta in Lucca il 21 Marzo 1926, il giornale

«Il Popolo Toscano», nella edizione 26 Marzo, citando l’opera compiuta dall’artista nella Chiesa di Porcari, la definisce espressione soavissima del suo animo. Ed il giornale rileva un particolare della pittura nella lunetta centrale, degno di nota anche dal punto di vista squisitamente patriottico: i tre angeli che occupano il centro della lunetta, raffiguranti le tre Virtù Teologali, sono dipinti in abito bianco, rosso e verde, i colori della bandiera italiana.

 

Agricoltura ed emigrazione nel secolo XIX

 

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Tornando sul lato destro, troviamo una scena di lavoro nei campi, che ha caratterizzato l’economia di Porcari fino a tutto il 1950.

Agli inizi del 1800, quando i francesi occuparono Lucca, Elisa Baciocchi dovette fare i conti con le condizioni economiche a dir poco miserevoli e, quel che è peggio, con una sorta di immobilismo quasi rassegnato che determinava decadenza su tutti i fronti.

Due terzi delle terre erano di proprietà del clero e della nobiltà. C’era una modesta classe borghese che esercitava il commercio dopo che i nobili vi avevano rinunciato. Il resto era composto da piccoli proprietari e braccianti agrico

li. Denaro ne circolava poco perché clero e nobili erano propensi a risparmiare mettendolo al chiuso nelle banche.

L’industria della seta che aveva fatto la fortuna di Lucca nei secoli precedenti, si era dovuta inchinare di fronte alla concorrenza di quei Paesi che avevano appreso l’arte dai Maestri lucchesi e li avevano poi sopravanzati grazie soprattutto alla intelligente politica dei loro governanti.

Elisa cercò di porre rimedio a questa situazione incoraggiando tutte le iniziative agricole ed artigianali, «quali la produzione dello zucchero dalle castagne, coltura dell’ortica per produrre

 

Porcari,l’ertadellachiesainunafittodiinizio'900

 

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cotone, allevamento del filugello, ecc.». Quest ultima attività, l’unica del resto fra quelle introdotte a diffondersi rapidissimamente, non dava mai grossi proventi, tuttavia, nelle annate buone, consentiva di realizzare quel po’ di moneta per fare spese eccezionali. Occorrevano grandi quantità di foglie di gelso da dare in pasto ai bachi che mangiavano giorno e notte e crescevano a vista d’occhio. Per raccoglierle venivano mobilitati tutti i componenti della famiglia per un periodo di circa tre mesi: da aprile a giugno.

L’olio, considerato il primo ed il maggior prodotto dello Stato, insieme ai cereali ed al vino, costituivano le principali colture.

Le paludi intorno al lago di Sesto, sebbene potenzialmente sfruttabili per la produzione del riso, costituivano solo una sottrazione del terreno coltivabile. Infetti tale coltura, ancorché conosciuta, fu rigorosamente proibita dal 1612 per i danni «che ne venivano alla salute». Tale proibizione si protrasse fino al 1839, quando Carlo Lodovico allentò le disposizioni restrittive. Da questa data, iniziò la coltura del riso intorno al lago di Sesto anche se per pochi anni, per l’opera di bonifica che ne seguì. Nei confronti

di questa coltura ci fu sempre però, qualche diffidenza a causa certamente del lungo periodo del proibizionismo.

La coltivazione della patata, seppure si adattasse bene anche ai piccoli appezzamenti di terreno e richiedesse un lavoro limitato, era del tutto trascurata per la diffidenza popolare che la faceva portatrice di peste. Fu Elisa ad incoraggiarla a seguito anche degli studi del Parmen- tier, il quale andando contro i pregiudizi dell’epoca ne provò non solo l’innocuità ma addirittura l’utilità per l’alimentazione umana. A partire dal 1817, ai francesi succedettero i borboni, con Maria Luisa e poi con suo figlio Carlo Lodovico, ma le cose sembrarono andare ancora peggio. Successe poi che il territorio lucchese, nel 1847, fu annesso alla Toscana, ma Leopoldo II, il Granduca illuminato, non promosse nella acquisita lucchesia nessuna opera importante ad eccezione della bonifica del Lago di Bientina iniziata nel 1854.

Le terre sottratte al lago, che ora potevano essere destinate all’agricoltura, furono oggetto di aspre contese, specialmente dalla gente di Porcari che fu, in un primo tempo esclusa, quando si trattò di assegnarle.

 

Porcari, in unafotodiinizio *900

 

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Quelle terre, chiamate «comunali», soggette ad inondazioni quando il lago si gonfiava e per la maggior parte dell’anno paludose, erano sempre state considerate di tutti, nonostante i ripetuti inviti delle autorità a rispettare il diritto di sfruttamento esercitato da quelle persone alle quali venivano allivellate contro pagamento. I porcaresi, come d’altronde gli abitanti dei villaggi che confinavano con il lago, non intendevano assolutamente assoggettarsi a questa legge o forse non potevano rinunciare a quelle multiformi attività proposte dal lago e che avevano assicurato, fino ad allora una, seppur misera, sopravvivenza per moltissime famiglie. Così nella notte tra il 19 ed il 20 marzo 1862, ottocento porcaresi scatenati nel rivendicare il proprio diritto su quelle terre, causarono una interminabile serie di danni alle proprietà degli assegnatari e livellari, elencati in dettaglio dalla Reai Corte di Appello di Lucca, alla quale furono deferiti i responsabili.

Ci vollero alcuni anni per placare gli animi. Anche all’indomani della bonifica, le condizioni restarono miserevoli per la popolazione e provocarono l’ennesima epidemia: la miliare a forma dfoidea.

Il dottor Amilcare Pellegrini di Lucca attribuisce la malattia alle

«...esalazioni deU’essiccato Padule, unitamente al vitto scarso e di rea qualità di cui fanno uso quelle popolazioni...».

Nel 1865, rilevando «...la straordinaria mortalità che si verifica sulle puerpere nel paese di Porcari», vennero prese misure suggerite dai medici del luogo da adottarsi in via sperimentale ed invitate tutte le donne che si trovano al principio dell’ottavo mese di gravidanza ad

«... allontanarsi dal paese e trasferirsi a partorire altrove, assegnando a titolo di indennità una diaria di lire una alle completamente miserabili e di centesimi 60 alle povere non miserabili per la durata di due mesi e mezzo al più intendendo che non debba estendersi il sussidio oltre il ventesimo giorno dopo ilparto e purché provino di essersi allontanate di fatto dal paese e ne facciano preventiva domanda all'ufficio comunale». Per rimediare ad una situazione di carestia, ormai patologica, partirono anche gli uomini, emigranti, seppur temporaneamente, verso la Corsica in particolare, dove si offriva loro occasioni di lavoro. E fu una emigrazione veramente diffusa.

 

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Questo tipo di emigrazione, come fenomeno degno di rilievo, è durato fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, anche se, nell’ultima parte del secolo XIX, prevalse la tendenza a raggiungere le Americhe, terre dalle grandi promesse.

Abbiamo un bella pagina sugli emigranti lucchesi in Corsica, scritta da Piero Bargellini, che ci fa un drammatico quanto patetico resoconto della loro situazione:

«Non avevano che due braccia, sibbene armate di ferro. Senza orgoglio nazionale, senza presunzione d’artigiani privilegiati si offrivano a tutti i mestieri, ma più specialmente a quello di boscaiolo, carbonaro, segantino, legnaiolo... Poveri i lucchesi, più poveri dei còrsi più poveri, campavano con meno di quello col quale gli animali campano. Quando andavano col sacchetto a ricomprare il sale alle case, facevano specie. I ragazzi scappavano o li beffavano. Entravano coi quattrini sulla palma della mano, come se limosinassero invece di pagare...».

Erano inoltre, di necessità, di una parsimonia proverbiale; «Quando un lucchese mangia, si tiene la mano sotto il mento».

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L’occupazione prevalente comunque, continuava ad essere quella agricola anche se mortificata dalla polverizzazione della proprietà, e dalle piene frequenti causate da un disordinato sistema idrico che spesso mandavano alla malora le fatiche di un anno di lavoro.

 

L’istruzione a Porcari

 

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Negli pitture in cima alla sala consiliare, partendo da sinistra troviamo una donna insieme ad un ragazzo. Nello sfondo intravediamo il Collegio Cavanis. La donna si chiama Cheru- bina Giometti che, con la sua generosità, ha permesso a tanti ragazzi di Porcari e non solo, di studiare.

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Le Suore Dorotee e l’Istituto Cavanis Le Suore Dorotee erano venute a Porcari nel gennaio del 1887 e si erano stabilite presso la Villa Stringari (oggi Palazzo Comunale). Successivamente, fu costruito a spese della comunità e con la donazione del terreno, la casa che ancora oggi si trova in via Capannori.

Si dedicarono all’insegnamento delle ragazze del paese che frequentarono l’istituto, secondo quanto afferma il Parroco Marraccini, fin dai primi giorni. La scuola fu frequentata quasi subito da circa duecento ragazze, «...metà circa delle quali sono istruite gratuitamente».

Mancava invece un istituto che si curasse dell’educazione dei ragazzi. Ci pensò, agli inizi della Prima Guerra Mondiale, Cherubina Giometti, vedova di Anseimo Toschi.

La Giometti manifestò al parroco di Porcari, che allora era il sacerdote Marraccini, l’intenzione di donare parte del palazzo di sua proprietà e delle terre circostanti ad un istituto religioso che provvedesse alla istruzione gratuita

 

Porcari, il collegioCavanisinunafoto diinizio900Veduta attuale della zonadell’ex collegioCavanis

 

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Porcari, la vecchia edicola dinanzi al collerio Il collegio Cavanis negli anni

 

della gioventù maschile di Porcari. Cherubina Giometti rinunciando alla

«proprietà», sceglieva di liberare i ragazzi ed il paese dalla schiavitù dell’ignoranza; intendeva rendere giustizia a chi fosse costretto, per miseria, a rinunciare alla conoscenza e alla realizzazione di sé stesso. Fu prontamente stabilito un rapporto con i Padri Cavanis di Venezia, per mezzo di Don Mario Del Carlo, che in quel periodo era militare, in quella città.

Da quel momento le cose procedettero rapidamente. I Padri Cavanis arrivarono a Porcari per una visita nel Giugno del 1919 e già il 21 Novembre 1919 dettero inizio all’insegnamento con l’apertura di una scuola ginnasiale e tecnica e doposcuola. L’8 dicembre dello stesso anno fu aperta anche la scuola serale con 60 iscritti. Questa sensibilità al problema dell’istruzione della gioventù di campagna, non ha riscontro in alcun altro paese della lucchesia. Se a Porcari troviamo questa disposizione d’animo, peraltro molto diffusa anche negli strati sociali più poveri, a considerare con priorità l’esigenza di una scuola aperta a tutti, lo dobbiamo certo a quell’opera intensa di persuasione svolta da Carlo Galgani per l’intero periodo in cui fu medico condotto, al parroco Marraccini, ed alla sensibilità di tante persone come la Giometti.

  1. Padri Cavanis costruirono anche la chiesa dell’Istituto, aperta agli abitanti di Porcari che vi accedono da Via Sbarra. La chiesa disegnata dall’Ingegner Architetto Eugenio Pergola di Lucca, «per amor di Dio», fu portata a termine «col concorso gratuito di alcuni uomini e molti ragazzi» nel gennaio del 1927.

  2. 15 febbraio furono tolti i ponteggi e cantata una messa solenne di ringraziamento per l’opera compiuta in così breve tempo e senza che fosse accaduta alcuna grave disgrazia.

Quel giorno assiste alla funzione anche quella piccola, oscura benefattrice dal nome di sapore un po’ crepuscolare.

Cherubina Giometti, ormai anziana, dai capelli bianchi, stretti in un ciuffo essenziale dietro la nuca, dal volto segnato dagli anni, dalle grandi mani nelle quali si poteva leggere, come in un libro il suo passato di lavoro e di tribolazioni, se ne stava in disparte. Forse, nell’euforia

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della festa, nessuno si accorse di lei, dalla quale era partita l’idea e che aveva fornito i mezzi affinché anche i ragazzi di Porcari avessero la loro scuola; affinché non avessero più a subire le umiliazioni deU’analfabetismo e dell’ignoranza. Non solo la scuola giovò e giova ai ragazzi di Porcari: la frequentarono e la frequentano i giovani provenienti da tutti i paesi della lucchesia.

Morì l’anno dopo l’inaugurazione della chiesa del collegio, nel 1928, sola, come da tempo si era rassegnata a vivere, lasciando le residue proprietà ai Padri Cavanis, essendosi resa conto, da accorta contadina lucchese, di aver affidato i suoi beni in mani degne e per un nobile scopo. La sua tomba, nel cimitero di Porcari, è quanto di più scarno ed essenziale si possa immaginare. Nella lapide, addossata al muro di cinta si legge:

CHERUBINA GIOMETTI, VEDOVA TOSCHI, DONNA VERAMENTE CRISTIANA, DELLTSTI- TUTO CAVANIS FONDATRICE.

Povera era nata e povera aveva voluto

morire: tutto quanto era riuscita a realizzare nel corso della sua esistenza, lo aveva restituito alla comunità con gli interessi.

 

Dall’agricoltura all’industria

 

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Sul lato destro, in fondo alla sala, troviamo immagini che caratterizzano l’attività industriale del paese: ciminiere, fabbriche, bobine di carta. Troviamo però anche un olivo, non a caso posto dal maestro Maiani in posizione centrale. Questo olivo, rappresenta la speranza che nel paese possa convivere l’impresa, con la pace, la serenità di un paese tradizionalmente agricolo. Sembra un messaggio diretto ai capitani d’industria di oggi affinché amino e rispettino questa terra, come l’amano e l’hanno amata tutti i porcaresi. Fino alla fine della seconda guerra mondiale, per quanto riguarda l’economia non si avvertono importanti cambiamenti. L’agricoltura continuava a costituire la più importante risorsa, essendo l’industria rappresentata da piccole attività: un oleifìcio, due fabbriche di cre- mor tartaro e lievito di birra, alcune latterie. Presenti sul territorio anche modeste attività commerciali e di artigianato.

Dal censimento del 1936, rileviamo 1762 addetti all’agricoltura e 570 suddivisi fra industria, artigianato, commercio e servizi. La popolazione inattiva superava le 3000 unità.

Già la situazione era leggermente cambiata nel 1951, dove troviamo gli addetti all’agricoltura ridotti a 960, mentre 1186 erano i dediti all’industria ed alle altre attività. A partire dal 1951, il quadro cambia radicalmente.

Contribuì alla trasformazione del paese, proprio un giovane che aveva frequentato l’istituto Ca- vanis, dove aveva potuto conseguire la licenza superiore; poi la laurea a Pisa in economia e commercio. Era Vincenzo Da Massa Carrara eletto sindaco il

27 giugno 1951. Egli seppe approfittare prontamente di una legge statale per far dichiarare Porcari zona depressa.

Il giovane sindaco scrisse a tutti i maggiori imprenditori italiani sollecitandoli ad aprire una attività a Porcari. Nella sua lettera offriva:

 

Porcari, veduta Dott. Vincenzo Da Massa Carrara

 

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  • ampia disponibilità di manodopera;

  • possibilità di acquisto dei terreni a prezzi modesti;

  • vicinanza all’autostrada Firenze Mare, e creazione di infrastrutture per raggiungere facilmente sia autostrada che ferrovia;

  • enfatizzava poi la legge statale che esonerava dal pagamento di imposte chi impiantava una fabbrica a Porcari.

L’occasione era ghiotta e molti ne approfittarono, così Porcari in poco tempo cambiò decisamente volto.

Già nel 1986 gli addetti all’industria e alle altre attività (2.693) sopravanzavano di gran lunga gli addetti all’agricoltura, ridotti a 173 unità, ma al censimento del 2001 il raffronto ha dell’incredibile: ben 5.885 sono le persone impiegate in attività diverse dall’agricoltura.

Dal 1986 al 2001, furono molti i pendolari provenienti dai paesi vicini, perché la disponibilità

 

delle abitazioni non era andata di pari passo con l’esplosione dell’industria determinando il rallentamento della crescita della popolazione residente passata dalle 6.865 unità del 1986 alle 7.078 del 2001. Da allora, la tendenza è stata invertita: al 31 dicembre 2006, la popolazione di Porcari è salita a quota 8.121.

La nascita del Comune di Porcari ed il primo sindaco Felice Orsi

 

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La pittura centrale in fondo alla sala celebra la nascita del comune di Porcari ed il suo primo sindaco, Felice Orsi.

Abbiamo parlato delle condizioni del paese fi- no alla fine degli anni ’60 del secolo XIX.

A partire dal 1870, la situazione sembra mi- gliorare. Tutti si danno da fare. Chi non trova lavoro in paese va fuori, e ritorna con un po di soldi da investire ed aprire una piccola attività. Fervono i lavori tanto è vero che la borgata sen- te il bisogno di un servizio di trasporti a picco- la velocità da istituire nella stazione ferroviaria. La domanda rivolta al comune di Capannori,

di cui Porcari costituiva frazione fu respinta per due considerazioni:

  • il vantaggio di tale opera non era generale, ma ristretto ai negozianti del luogo;

  • il Comune di Capannori, impegnato in for- ti spese per completare la viabilità obbligatoria non poteva assumersi oneri per un ingrandi- mento di stazioni ferroviarie.

Tale delibera non piacque ai Porcaresi, i quali decisi a voler istituito il servizio per i loro com- merci, dovettero necessariamente finanziare in proprio, l’operazione.

Il rifiuto del Comune di Capannori a provve- dere ad una spesa il cui vantaggio era «ristretto j ai negozianti del luogo», costituirà una delle tante motivazioni addotte dai Porcaresi per chiedere il distacco da Capannori.

Altro motivo di separazione era quello della se- de comunale posta nella citta di Lucca: lonta- na e scomoda da raggiungere per la popolazio- ne della frazione di Porcari.

L’occasione propizia per costituirsi in comune

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autonomo, si presentò all’indomani della ema- nazione della legge del 10 febbraio 1889 che dava facoltà alla Giunta Provinciale Ammini- strativa di ripartire il numero dei consiglieri di un comune fra le diverse frazioni, in propor- zione alla popolazione di ciascuna di esse.

Porcari avrebbe avuto tutto da guadagnare es- sendo una delle sezioni più popolate, ma la di- visione dei seggi fu fatta con altri criteri ad evi-

tare, si disse, «motivi di campanilismo che nuocerebbero alla cosa pubblica».

Intanto, le elezioni del 1890 furono vinte da una maggioranza che aveva come programma

 

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Felice Orsi, primo sindaco del Comune di Porcari Gli attuali confini del Comune di Porcari Veduta del territorio

 

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Veduta della "Torretta" e del poggio di

Porcari emblemi del paese

 

elettorale lo spostamento della sede comunale da Lucca a Capannori.

La decisione di trasferire la sede comunale, però, non piacque nemmeno alla Giunta Provinciale Amministrativa, considerato il danno morale ed economico che ne sarebbe derivato alla città di Lucca. Se la sede comunale fosse uscita dalle mura, tutti i capannoresi, ed erano molti, non avrebbero più avuto necessità di venire a Lucca, per sbrigare, ad esempio, le consuete pratiche presso gli uffici comunali, con grave nocumento per i commercianti e l’economia lucchese. Queste considerazioni stimolarono di certo i componenti della Giunta Provinciale Amministrativa a cercare una via d’uscita per rimediare le conseguenze di una delibera inopportuna.

L’occasione veniva offerta proprio dalla istanza presentata dagli elettori di Porcari nel dicembre precedente, con la quale si chiedeva la ripartizione dei consiglieri fra le diverse frazioni, in proporzione alla popolazione di ciascuna di esse, e rimasta inascoltata.

La Giunta Provinciale Amministrativa, pertanto, con la delibera del 18 aprile 1890, letta nel Consiglio Comunale di Capannori il 28 maggio successivo, secondava l’istanza degli elettori di Porcari ed il Consiglio non potè far altro che indire nuove elezioni. Ovviamente, la delibera del trasferimento della sede doveva essere considerata come mai intervenuta e l’argomento avrebbe dovuto essere riproposto alla assemblea comunale da ricostituire. Nei pochi mesi che seguirono, cambiarono parecchie cose. Fra gli eletti figuravano molti elementi cittadini, tutti più o meno coscienti ed opportunamente sensibilizzati sulle conseguenze di un eventuale trasferimento della sede da Lucca a Capanno- ri. Era chiaro a tutti che lo spostamento non sarebbe mai avvenuto, ma restava, come una pietra, la ferma richiesta di autonomia da parte dei porcaresi.

Dovettero passare altri anni di lotte, manifestazioni, fra speranze ed amarezze. Seguirà una nuova domanda di autonomia presentata nel 1909 e finalmente quattro anni più tardi, la sola frazione di Porcari otterrà il distacco dal comune di Capannori, con il R.D. 22-6-1913, n. 662.

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Il popolo di Porcari mostrò in quella occasione una unità e compattezza senza precedenti, ma dobbiamo specialmente alla intelligenza alla caparbietà di alcuni personaggi fra i quali l’avvocato Felice Orsi, se quel progetto potè realizzarsi. Orsi fu eletto, all’unanimità, sindaco di Porcari nel 1915 e restò in carica fino al 1920. Nell’adunanza del 14 ottobre di quell’anno, prendendo commiato dai colleghi con i quali per ben sei anni aveva cooperato per la «retta amministrazione del novello comune», ricorda i momenti difficili attraversati, i lavori effettuati dalla amministrazione ed i progetti per le nuove opere. Fa voti per lo sviluppo «igienico, industriale ed agricolo del paese». Augura alla nuova amministrazione la concordia degli animi e l’unione delle forze per il bene della popolazione.

A Felice Orsi, nato a Massa il 21 maggio 1876 e morto il 28 aprile 1936, autore indiscusso dell’autonomia del nostro comune, Porcari ha dedicato la piazza principale ed una scuola.

 

Note al testo

 

1 MARIO SEGHIERI, Porcari e i nobili Porcaresi, un castello, una consorteria, Comune di Porcari Editore, Matteoni Stampatore, Por- cari, 1985.

2 MARIO SEGHIERI, Porcari e i nobili Porcaresi, un castello, una consorteria, Comune di Porcari Editore, Matteoni Stampatore, Por- cari, 1985.

3 Ibidem.

4 MARIO SEGHIERI, op. cit., pagg. 71-74.

5 Ibidem, pagg. 133-136.

6 MARIO SEGHIERI, op. cit.

7 MARIO SEGHIERI, op. cit. pagg. 84-85.

8 Riportato da M. Seghieri nel libro «Porcari e i nobili porcaresi...» più volte citato, pag. 87.

9 MARIO SEGHIERI, op. citata, pag. 91.

10 GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica, Tomo secondo, Libro X, CCCI.

11 NICOLÒ MACHIAVELLI, La vita di Castruccio Castracani da Lucca.

12 EMANUELE REPELLI, Dizionario Geografico, Fisico, Storico della Toscana, Repetti, Voi. IV, Firenze 1841.

13 Inferno, canto XXI.

14 GIORGIO DEL GUERRA, Il Beato Eugenio III, Pisa Tip. Orsolini-Prosperi, 1954, pag. 16.

15 Egli fu il principale artefice dell’allargamento di questo nobile tempio e con entusiasmo sopportò i pesi di un opera tanto grande.

16 ANTONIO TABUCCHI, Si sta facendo sempre più tardi, pag. 91.

17 FRANCO DAL PORTO, Una grande famiglia di Porcari: I Di Poggio, pag. 68.

18 Documento in Archivio di Stato di Lucca. Cartella n. 550. Dono Lettieri. Da un manoscritto della Biblioteca Governativa di Lucca, segnato n. 1930 a folio 583:

19 Ibidem, pag. pag. 74.

20 Ibidem, pag. 75.

21 Chiunque sia tu che ti avvicini, se amante della libertà, leggi con attenzione questa lapide cosi da apprendere gli atti che la famiglia Di Poggio commise nella nostra Repubblica. Per opera di costoro nel 1436 fu ucciso Pietro Cenami appartenente al consiglio degli Anziani. Poi, nell’anno 1522 essi, con l’intento di opprimere la libertà, trucidarono in maniera vivissima, Geronimo Vellutelli, Gonfaloniere di Giustizia, ma dal momento che l’intera cittadinanza aveva impugnato le armi contro di loro, essi, parricidi trovarono scampo nella fuga e diventati consapevolmente dei ribelli contro la Repubblica, furono condannati a morte. Furono poi emesse altre condanne contro lo stesso casato. Siano rese grazie e Dio e queste cose non cadano nell’oblio.

22 Al Magnifico Senato lucchese, perché ha consentito che fosse rimosso dal Pubblico Palazzo la lapide che si legge sopra e perché ha restituito tutto il Casato dei Di Poggio, alla antica dignità. Lelio Ignazio figlio di Francesco Di Poggio, memore di tanta clemenza pose questa lapide nell’anno del Signore 1757.

23 Nella pietra era scolpita la seguente commemorazione: D.O.M. / PARENS EX VISONTE DE PODIO ESTUANTE CONTAGIO SACELLUM HOC / VTVIT CUM DUOBUS FILIIS TABE SUSCEPTA PERITURIS UNUM REVIXIT / ALTER CESSIT LENIO- RI FATO. HUIUS TENELLI CINERES IACENT HOC / ANGULO ADIACENTE AGRI QUEM IN PUBLICAM SEPOLTURAM PIE EMPTUM / IPSE PARENS, IOANNES ET CASSANDRA DE PODIO PORCARII RECTORI / DONAVERE. AN. DOM. MDCXXXI.

24 ANTONIO TORRIGIANI, Le castella della Valdinievole.

25 ANTONIO MAZZAROSA, Le pratiche della campagna lucchese.

26 P. BRUNO BRAZZAROLA, Ricerche e studi sulla vita e l’opera di Maria Domenica Brun Barbantini. 1789-1868 (Archivio Barban- tini Lucca)

27 La nota è stata posta dal canonico Luigi Andreotti, in «Annotazioni sul libro del Sindacato« (Archivio Parrocchiale di Porcari).

28 Queste pagine sono state riassunte dal libro di GIAN PIERO DELLA NINA, op. citata.

29 OLIVO DINELLI, Cenni sulla vita di Eufrosina Ramacciotti di Porcari, Lucca, Tip. San Paoliino, 1875.

30 GIOVANNI BARSOTTI, in «La beata Gemma Galgani vista da un conterraneo».

31 OLIVO DINELLI, opera citata.

32 Carlino Galgani, nipote del medico Carlo Galgani, muore il 28 maggio 1875, il giorno successivo alla morte di Eufrosina.

33 OLIVO DINELLI, opera citata.

34 Ibidem.

35 GIAN PIERO DELLA NINA, Porcari nel secolo XIX, Comune di Porcari Editore, Matteoni Stampatore, Porcari, 1985.

36 Padre Leonardo da Porto Maurizio partecipando alle sacre Missioni con gran vantaggio delle anime, per soddisfare le esigenze della moltitudine che accorreva intorno a lui, i fedeli devoti della santissima Eucarestia, lasciato 1 angusto tempio, fissavano qui il temporaneo luogo della loro preghiera. Mese di giugno dell’anno 1723.

37 U. CECCARELLI, Un grande predicatore a Porcari, S. Leonardo da Porto Maurizio, in «Porcari nell’età moderna», Comune di Porcari Editore, Matteoni Stampatore, Porcari, 1985.

38 G. C. MARTINI, Viaggio in Toscana, in Porcari nel secolo XIX di Gian Piero Della Nina, Comune di Porcari Editore, Matteoni Stampatore, Porcari, 1985.

39 G. GHILARDUCCI, La Chiesa di S. Giusto di Porcari attraverso i secoli, in «Porcari nell’età moderna», Comune di Porcari Editore, Matteoni Stampatore, Porcari, 1985.

 

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Annotazioni pratiche sull’uso del solfato di chinina e del solfato di ferro.

Avvertenze morali specialmente per i giovanetti della scuola comunale di Porcari. Delle regole di vita da praticarsi dominando malattie contagiose.

I due giorni più dolorosi della mia vita - parole di Carlo Galgani.

Lettera al Signor Direttore dell’Araldo (in Araldo della Pragmalogia Cattolica ediz. 23-2-1853).

Quattro lezioni ai giovanetti, del dott. Carlo Galgani. (In Araldo ecc., ediz. 24-3-1852). Un bell’esempio di virtù cristiana. Poche parole del dott. Carlo Galgani. (In Araldo ecc., anno 1856, p. 25).

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Indice generale

 

5

Prefazione del Sindaco di Porcari Luigi Rovai .......................................... pag.

- Introduzione................................................................................ 7

I Il primo documento conosciuto.................................................................. 10

II Un borgo sulla via Francigena .................................................................. 13

III Il castello .................................................................................................. 15

IV Il vescovo Frediano (San Frediano) .......................................................... 17

V Lavori agricoli .......................................................................................... 21

VI L’Abbazia di Pozzeveri ............................................................................ 25

VII Le guerre del XIV secolo.......................................................................... 27

Vili Castruccio Castracani e la battaglia di Altopascio .......................... 30

IX

Il vescovo Paganello da Porcari e Santa Zita. Il papa Eugenio III: una 33

image

ipotesi

X Azzo da Porcari ...................................................... 37

XI La famiglia Di Poggio.................................................. 39

XII Le epidemie ................................................... 46

XIII Il medico Carlo Galgani................................. 49

XIV Eufrosina Ramacciotti .................................................. 51

XV San Leonardo Da Porto Maurizio................................. 53

  1. La chiesa di Porcari dedicata a San Giusto 57

  2. Agricoltura ed emigrazione nel secolo XIX 63

XVIII L’ istruzione a Porcari...................................................... 67

IXX Dall’agricoltura all’industria ................................................... 70

XX La nascita del Comune di Porcari ed il primo sindaco Felice Orsi 72

— Note ....................................................................................................

76

— Bibliografia essenziale .......................................................................

77

 

 

FOTOGRAFIA

Eugenio Toschi di Foto Nadir

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Alessandro Seghieri

STAMPA

matteoni stampatore

Porcari, maggio 2007

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